Agence Vu/G. Neri. termine heideggeriano) è meno rapportabile all'organico, come avviene nella poetica e nella teoria dell'arte aristotelica e romantica, che non al "transustanziale". L'aggettivo, come pure il concetto a cui esso si riferisce, è inevitabilmente pomposo e goffo. Ma l'evidenza con cui significato e esperienza sono attribuibili ad essi non è trascurabile. Ciò che è implicito è la nozione e l'espressione di "vera presenza". II lettore procede come se il testo fosse il luogo di forze e di significati, di significati di significato, il cui risiedere entro la forma verbale esecutiva è una forma di "incarnazione". Egli legge come se - una condizionalità che definisce la natura provvisoria della sua ricerca - la singola traccia di un significato vitale in un testo e in un'opera d'arte fosse una "vera presenza" non riconducibile a una sintesi critica e resistente alla valutazione, nel senso in cui il critico può e deve valutare. Ma una presenzialità, un presenza di cosa? Esistono diversi "come se", diverse forme di provvisorietà, come esistono diversi stili e configurazioni della critica. L'autorità di intuire una "vera presenza" può essere trovata nel tropo platonico e romantico dell"'ispirazione profetica". L'oggetto d'arte non è un oggetto nel senso ordinario del termine perché emerge da un misteroso ingresso esterno, dalla furia del daimon nel vuoto momentaneo della ragione e dell'identità dell'uomo. La poiesis, l'invenzione del poeta e del cantore sono imperativi che s'impongono dall'esterno. I veri prodotti dell'arte hanno in sé le vive vestigia di un'intrusione trascendente. Una variante di questo tropo è quella sacramentale che deriva dalla lettura e dall'esegesi dei testi "rivelati" (laddove la "rivelazione" può, ma non deve essere, trasmessa per dettato come avviene nel resoconto paradigmatico del rapsodo nello Ione di Platone). Ciò che in sostanza si presume è un'inerenza, per quanto esoterica, per quanto erosa o probabilmente falsificata dalla trascrizione umana, di uno SAGGI/STEINER "spirito" dentro, e "dietro" la lettera. È proprio questo presupposto che definisce il concetto di "iconico", la convinzione che l'icona non sia tanto una rappresentazione della scena o della persona sacra quanto l'immediata manifestazione, l'epifania di quella scena e persona. In altri termini, queste ultime sono "veramente presenti" per l'osservatore, non in virtù di una concessione o trasposizione immaginativa volontaria da parte del1' osservatore, ma perché esse risiedono dentro l'icona. Un terzo modello di "inerenza" è quello offerto dall'applicazione in estetica di un'ontologia filosofica assoluta. È quella che giustifica l'attribuzione heideggeriana di un Dasein totale, di una totale "presentificazione dell'essere" al paio di stivali sdruciti del dipinto di Van Gogh. Come sottolinea Heidegger, la "vera presenza" di questi stivali sopra e "dentro" la tela è di un ordine e di un'intensità, di una necessità fenomenica negata non solo a questo o a quel reale paio di stivali, ma anche all'analisi più rigorosa chimico-funzionale di "ciò di cui e per cui sono fatti gli stivali" (una totale inversione dello schema platonico della mimesi di terza mano e del realismo ingenuo che opera nella "critica"). I modelli funzionali che autorizzano un lettore ad assegnare uno status iconico al suo testo sono variabili. Ma presi singolarmente o insieme, essi gli permettono di afferrare nel concreto e di organizzare la sua esperienza di testo in sintonia con un tipo di affermazioni fatte dagli stessi scrittori e artisti (affermazioni a cui il "critico" può soltanto attribuire una validità di tipo retorico). In questa classe includerei la testimonianza di Michelangelo: "Se il mio rozzo martello i duri sassi forma d' uman aspetto or questo or quello, dal ministro, ch'I guida iscorge e tiello, prendendo il moto va con gli altrui passi". Oppure la dichiarazione fatta da Tolstoj a Katkov che Anna Karenina "si era staccata da lui", che la persona da lui immaginata aveva assunto una volontà e un'esistenza autonoma ( va con gli altrui passi), indipendente e perfino contraria alle intenzioni e alla volontà del romanziere. Oppure si potrebbe includere l'arroganza arcadica dell'affermazione di Picasso: "Io non cerco, io trovo soltanto". In ognuno di questi e di altri innumerevoli casi analoghi, l'apprensione a cui è sottoposto il "creatore" e il lettore è di un tipo che comporta una percezione e suscita terrore (entrambe attive nel verbo "apprendere"). L'attribuzione di "vera presenza" al testo, anche dove resta solo una costante provvisoria, significa che il coinvolgimento del lettore nel testo non è "oggettivante", che non può costituire un rapporto di reificazione, di competizione e, per estensione logica, di sostituzione. Il lettore si apre all'essenza autonoma del testo. La dialettica dell'incontro e della vulnerabilità (il testo può procurare dolore) è quella in cui il nucleo ontologico del testo, la sua presenza come essere interiore, al tempo stesso si rivela e nasconde. Questo movimento intermittente è ben noto. Quando arriviamo a conoscere meglio un testo, un dipinto, un pezzo musicale, quando cominciamo a sentire maggior familiarità con il suo linguaggio, c'è sempre qualcosa che sembra sfuggirci. Un'eco ci attira al suo interno èon un'intuizione crescente di comprensione rimasta ancora insoddisfatta. Per dirla in altri termini, l'osservazione è di solito psicologica. Ma quando la vera fonte di questa pulsione apparentemente contraddittoria di svelamento e di nascondimento viene attribuita al testo o ali' opera d'arte, si presuppone una "vera 39
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