Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

SAGGI/STEINER visione ordinante, che il critico non è, come vorrebbe il cliché, un artista fallito, ma un "controrelatore" e un rivale dell'opera. Inoltre, è indubbio che buona parte della critica si conquista un'autonomia attraverso la propria forza espressiva. Le sezioni fondamentali della Biografia letteraria di Coleridge sono "letteratura" in un senso non radicalmente estraneo a quello che attribuiamo alla poesia che esse analizzano e giudicano. La critica può sopravvivere al suo oggetto in virtù di un rischio oggettivo: molti dei dipinti e delle statue osservate e valutate dal Vasari oggi sono scomparsi. Oppure la critica può far questo perché la statura del critico è, pragmaticamente, superiore a quella dell'autore. Chi, se non lo specialista, legge i poeti minori su cui Samuel Johnson ebbe a fare memorabili considerazioni? Ma tali scambi di ruoli dovrebbero essere accidentali, involontari, e nascere da fattori estranei alla volontà e al controllo del critico. Gli "sconfinamenti programmatici" - la determinazione del critico di fissare la sua voracità su oggetti minori e affievoliti come una novella minore di Balzac, le rapsodie di Lautréamont, un film kitsch - sono atteggiamenti metodologicamente e eticamente viziati. Forse inconsciamente cercano di compensare, e perfino di vendicare il suo parassitismo rispetto all'oggetto, il quale resterà sempre prioritario e causa della sua esistenza. Tale vendetta può essere efficace. Oggi siamo circondati da testi spuri e minori che la critica ha deliberatemente ingigantito e sfruttato, e da opere d'arte e da testi di qualità che la critica ha sminuito e oscurato. Incoraggiamo gli studenti a leggere la critica di T.S. Eliot su Dante, non a leggere la Divina Commedia. La "critica" e la "lettura" crescono su piani separati. Ora, indubbiamente, il parassitismo è necessario alla vita. L'uccello che ripulisce con il suo becco la tana e le ferite del rinoceronte svolge un lavoro vitale e delicato. Il critico è necessario alla vita dell'arte e delle lettere. Ma proprio perché egli è, per molti aspetti significativi, della stessa specie del suo ospite, e adotta gli stessi mezzi e la sua stessa ragion d'essere, questa simbiosi produce ambiguità e usurpazione. La tentazione di tradire è sempre presente, in un atto di visualizzazione che "scherma" invece di delucidare, con un narcisismo teorico e idiomatico, con mascherati o palesi errori giudiziari (il critico può dire falsa testimonianza oltre a servire da giudice in un tribunale di sua competenza). Ciò fa parte dell'essenza del rapporto critico. Probabilmente è per questa ragione che la grande critica si rapporta alla sua causa con un'intimità di peculiare malinconia. 2. Rispetto all'iniziale polarizzazione "critico" e "lettore" sono emerse ali' incirca una mezza dozzina di coppie antitetiche. Esse includono la dissociazione tra una base epistemologica e una ontologica (un pregiudizio husserliano da una parte e uno heideggeriano dall'altro). Abbiamo visto che può esistere una differenza significativa tra la costituzione di un "programma di studi" e l'accettazione di un "canone", tra l'oggettivazione di testi dai presupposti realistico-immanenti e quelli fondati su categorie trascendenti. L'impulso teleologico della critica, le sue economie propositive possono differire dal tenore teologico del garante o del "terzo escluso" implicito nell'atto di "lettura". Entro e attraverso queste contrapposizioni opera l'indicazione di una distinzione essenziale tra l'autorità di giudizio del critico, la sua 38 collocazione normativa rispetto al testo o all'oggetto d'arte entro una distanza argomentata, e la "passività dinamica" o partecipazione emotiva del "lettore" il quale, quando la "lettura" raggiunge il suo effetto, diviene "colui che viene letto". Ammetto che questi suggerimenti relativi al "lettore" siano vaghi e negativi. Nella critica è facile trovare qualcosa su cui essere d'accordo e/o dissentire. È difficile dire qualcosa di utile sulla "lettura" nel senso che questo intervento tenta di articolare. La critica è discorsiva e produce discorso. L'atto del "leggere" non suggerisce alcun impulso primario verso la propria comunicazione. Il "lettore" che parla è, in un certo senso, più che privilegiato. Le testimonianze più sicure che abbiamo dei maggiori atti di lettura tendono ad essere oblique, tangenziali, esattamente nel senso in cui WalterBenjamin, il quale era egli stesso un maestro della lettura, sostiene che la grande traduzione è tangenziale rispetto al significato letterale dell'originale. Leggere è un fare piuttosto che un dire (una delle poche narrazioni convincenti dell'atto di lettura, di une lecture bienfaite et plénière di cui sono a conoscenza è quella che si trova nel Dialogue del' histoire et de l'éìmepai"enne, un'altra nelle memorie di Nadezda Mandel'stam; ma entrambe sono narrazioni, non analisi, non tentativi di astrazione metodologica "esterna"). Le antinomie, il gioco di differenze inconciliabili, non meno del mistero delle interrelazioni, si collocano tra Eco e Narciso. Ancora una volta, questo significa invocare un piano metaforico. Tuttavia vale la pena di discutere almeno in parte e un po' più a fondo i "tagli" diacritici che ho elencato. Nella prospettiva del "lettore" - nelle cui funzioni includo qualsiasi appercezione di un testo, di un'opera d'arte, di musica, e di forma dinamica che non corrisponda, almeno non del tutto, alla visione legislativa del critico - !'"alterità" che affronta non è "qualcosa di tangibile", non è, per prima cosa e soprattutto, un "oggetto". Ora è verissimo che la critica ha anche indagato, immaginato, metaforizzato lo stato fenomenologico "non oggettivo" di una poesia, di un dipinto, di un pezzo musicale. La critica troppo spesso ascrive a una questione di suo interesse speculativo e di sua competenza una singolare natura epistemologica, una sorta di "terzo regno" nella terminologia suggestiva di Popper. Certe scuole critiche sono state ben disposte a garantire che questa "grande arte" abbia, in virtù dell'ispirazione che la genera, un'irripetibilità, un'inesauribilità formale, una forza d'impatto, e una modalità assertiva diversa da quella, ad esempio, di altri oggetti presenti in natura o manufatti. Ma per il critico questa extraterritorialità resta la concessione preliminare da fare nei confronti delle inconoscibili sfere estetiche e psicologiche ("inconoscibili", e quindi ancora da scoprire). È una concessione che non inibisce l'esercizio dell'analisi e della valutazione. Il "lettore", per converso, risiede nella provvisorietà- termine ambivalente in cui egli riconos~e l'importanza della nozione di "dono", di "ciò che ispira una visione", e che necessariamente la "nutre". Egli si situa all'interno, della supposizione che il testo, l'opera d'arte, la composizione musicale siano dati non nel senso "scientifico" o realisticamente oggettivato del termine, ma nel senso pçimario e arcaico di "quel che ci è dato". Che non sono "oggetti", anche in una specifica categoria "estetica", ma "presenze", "presentimenti" il cui esistenziale "esserci" (per usare il

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