Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

SAGGI/STEINER La scena attuale è un po' carente di autoironia. Nelle università e nei media il critico ha assunto una posizione di monumentale prepotenza. Distanziare oggetti vizza; ovvero, perusare un termine in voga ma accurato, reifica (es verdinglicht). L'oggetto del!' atto critico, che il suo movente sia diagnostico o mimetico, agiografico o punitivo, viene percepito diventando quindi una "cosa". La critica rimanda costantemente alla nozione di "arte viva", alla "vitalità", o alla "forza vitale" della musica o della poesia. Dai tempi della stesura della Poetica, essa ha fatto dell'"organicità" un criterio esplicativo e un ideale. Ma queste invocazioni di vitalismo sono finzioni strumentali. Per dare un ordinamento, una collocazione e un verdetto alla percezione, l'oggetto critico viene reificato. Non si fa l'anatomia o l'autopsia di un tessuto vivo; a meno di non riprendere la dimostrazione che Schumann dà del!' antitesi tra una relazione musicologica, per quanto nutrita di consenso e di autorevolezza analitica, e la riesecuzione del pezzo. In secondo luogo abbiamo visto che la distanza tra critico e oggetto prende le mosse da una motivazione. Ora, qualunque sia il tipo di intenzione, la relazione stabilita è innanzitutto derivativa. Il critico, che voglia dissezionare o imi tare, lodare o annullare, si riferisce a "un qualcosa che esiste prima di lui" - dove l'eloquente preposizione "prima" si fa portatrice di significati sia locativi che temporali. L'oggetto è esistito nel tempo prima che il critico giungesse ad esso, anche se questa precedenza è solo questione di poche ore, come nel caso del giornalista-recensore. Per questo, il terreno vitale, la ragion d'essere anche della più eclatante e spinosa delle argomentazioni critiche è la preesistenza dell'oggetto d'arte o del testo. Le versioni sofoclee dell'Edipo precedono la Poetica; le Lyrical Ballads vengono prima della brillante "prassi critica" di Coleridge in cui getta le radici tanta critica moderna; le poesie di Marvell anticipano di molto le riflessioni di T.S. Eliot. Tuttala critica è posteriore, e questo status sequenziale non è solo temporale ma esistenziale. L'opera d'arte, il testo, la composizione musicale non solo esiste prima della visione ordinante del critico: può tranquillamente esistere senza di essa. Nessun critico è, formalmente o di fatto, la causa di ciò che egli percepisce o riporta. Questa posteriorità esistenziale, questa dipendenza dell'atto percettivo e normativo rispetto alla natura precedente e autonoma dell'oggetto implica che ogni critica è, ontologicamente, parassitaria. Il paradigma platonico rende grafico il grado di derivazione. Il falegname imita l'idea di tavolo. Il pittore mima questa mimesi la cui forma letterale egli non può né giudicare né eseguire fedelmente. Il critico di un dipinto spazia di quarta mano sulla plausibilità di un'ombra. Ma anche nei modelli meno caustici di azione esecutiva e percettiva è evidente la natura dipendente, ancillare, occasionale - perché "occasionata dall'esterno" - di ogni visione ed espressione critica. Il critico non è l'artefice. Che venga sottolineato questo luogo comune e che esso possa perfino acquisire una polemica risonanza è un sintomo dell'assurdità e del capovolgimento dei valori oggi emergenti nell'accademia e nello stato attuale delle lettere. Sainte-Beuve aveva scorbuticamente ragione a dire che nessuno costruisce statue ai critici; ma può essere stato un cattivo profeta. La reificazione del l'oggetto critico e la natura necessariamente (non accidentalmente o rimediabilmente) parassitaria della reazione del critico davanti al suo oggetto determinano l'instabilità di fondo dell'intera impresa. Il critico valorizza (anche quando il suo aggiudicare ha un'iperbolica risonanza) ma allo stesso tempo sa di essere di seconda mano, un atto epifenomenico. Da questa asimmetria deriva il fatto assolutamente centrale che ogni critica è, in un certo senso, "oppositiva" rispetto al suo oggetto. Questo punto va definito con chiarezza. Anche quando il suo programma è epifanico, ili uminante nell'atto di situare e di apprezzare, anche quando sembra farsi servitrice devota e araldo dell'opera d'arte, la critica non solo si pone "al di fuori" e "conseguente alla" sua ragion d'essere: essa è "contraria" ad essa. Essa è, rispetto ali' opera, per usare la cruciale definizione di Kenneth Burke, una contro-dichiarazione. È proprio perché sa di essere al tempo stesso magisteriale e parassitaria, prescrittiva e dipendente, normativa e occasionale, che la critica ha in sé forti spinte verso l'autonomia. Quanto più alla critica sarà chiaro i I suo essere di seconda mano, tanto più essa sentirà pressante l'impulso verso uno status di interezza. Implicita in ogni critica, non in virtù di una contigenza storica o di una colpevole vanità, ma come ineluttabile condizione della sua esistenza, è la sua tendenza verso l'autonomia. Coscientemente o meno, la critica lavora per trascendere il rapporto che la lega al testo. La critica ha in sé, nella sua sostanza metodologica e intenzionale, la paradossale potenzialità, perfino assurda rispetto alla logica, di esistere "al di là" del proprio oggetto. Essa vive la tentazione costante di fare del suo oggetto non la causa necessaria e sufficiente della propria esistenza, ma un mero punto da cui partire e poi allontanarsi. In questa maniera mostra una precisa disposizione all'usurpazione: tende a ritrarsi dalla sua derivatività esistenziale e assume la priorità ontologica della sua causa. Questa è l'eziologia e la spiegazione che fa da sfondo all'attuale carattere ipertrofico della critica, in particolare quella letteraria. La scena attuale è un po' carente di autoironia. Nelle università e nei media il critico ha assunto una posizione di monumentale prepotenza. Le metodologie critiche, con le loro spurie rivendicazioni di profondità teorica e di rigore procedurale, si sono moltiplicate e offerte ali' indagine secondaria e terziaria (esistono critici della critica, riviste di "dia" - e di "meta" -critica in cui i critici discutono i meriti del proprio gergo; esistono qualificazioni universitarie della critica). In una modalità di terrorismo narcisistico, la critica ora propone di "decostruire" e di "disseminare" il testo, per renderlo la fonte labile e in definitiva contingente della sua prepotente esuberanza. Tale esuberanza è sostenuta da costruzioni metalinguistiche di autistica oscurità e violenza. Il terrore e la foschia che ne risultano avvolgono il testo in oggetto fino a un punto di deliberata cancellazione.L'atto della critica ha "inghiottito" il suo oggetto (termine adottato da Ben Jonson per indicare un parassitico consumo) e ora si regge autonomamente. Vi sono difatti precise condizioni storiche e sociologiche che determinano questa situazione cancerosa e inflazionistica. Esistono ragioni locali e temporali per le quali oggi la critica occupa una posizione ineguagliata dai tempi della scuola alessandrina e dei grammatologi (in entrambi i periodi si è verificato un concomitante affievolimento della letteratura). Ma il potenziale di quest'inversione di valori tra il critico e l'oggetto che lo precede è implicito in ogni atto critico. Esisteva sin dagli inizi. L'implicazione è una necessaria e dinamica conseguenza del fatto che la critica è in competizione con l'oggetto della sua 37

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