Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

SAGGI/STEINER Il critico opera a una certa distanza. Egli è distante da e "distante verso" un oggetto, una sostanza che egli trova e situa "in una realtà esistente". In questo classico scenario, non c'è alcuna fusione tra percettore e percepito. una dimensione materiale. Sono sostanze significanti. Rispetto agli artefatti materiali nel senso "ingenuo" del termine- i quadri dipinti su legno o tela, le statue scolpite nella pietra o nel bronzo - la materialità primaria o la sostanzialità non ha mai costituito un problema. Il critico d'arte non trova nessuna difficoltà a includere entro le coordinate della sua riflessione valutativa dimensioni quali il colore, il tessuto, l'ordito, e così via. È, per lo più, solo questo materialismo epistemologico che convalida la concezione, così cruciale nella sensibilità occidentale e nel mercato dell'arte, della radicale differenza tra l'originale e le sue copie o riproduzioni più fedeli. Per contrasto, vedremo che nell'epistemologia del "leggere", la copia, l'atto del copiare, può . mostrarsi equivalente a quello della creazione. Nel caso di un oggetto linguistico (un testo), postulare la sua materialità può sembrare elusivo. Ma, di certo, le analogie tanto spesso individuate tra la letteratura da una parte e la pittura e la scultura dall'altra sono insipide o inesatte. È solo in casi esoterici e storicamente determinabili che la sostanza letterale del testo - l'epigrafia, la filigrana, l'impressione - ha qualche immediata pregnanza critica. La presa critica non considera se il suo oggetto è in folio o in quarto; la valutazione di un testo è indifferente al fatto che si tratti della prima edizione o della più meccanica delle riproduzioni. Nonostante ciò, l'oggetto del linguaggio è un oggetto, un dato "esistente". Questo significa che la qualificazione cardinale della sua esistenza oggettiva è applicabile ad esso. Il materiale verbale è stato "prodotto"; è, di fatto, una fabbricazione. Esso può, e deve, essere collocato nell'immanenza. Il "lettore" risponde più al suo potenziale "trascendimento" che alla sua immanenza. Questo è, probabilmente, un quinto modo di definire la disgiunzione a cui mira questo saggio. Il carattere immanente degli oggetti della critica può essere diversamente catalogato. La rubrica più comune è quella storica. Il testo è stato prodotto, codificato, e reso pubblico da questo o da quell'autore, in questo o quel determinato spazio e tempo. Esso incorpora- e qui incorporare, a questo punto, e per il momento, non è sinonimo ma piuttosto l'inverso di incarnare - una particolare selezione tratta da tutto il grezzo materiale linguistico e dalle restrizioni che un determinato autore aveva davanti a sé. La recente insistenza dei critici marxisti, della critica sociologica o semiotica sulle strutture economiche di ogni "testualità" - il fatto che i testi siano manufatti, e in competizione fra loro nel guadagnarsi un mercato, il fatto che siano oggetti di scambio, di consumo e di accumulazione - serve solo a drammatizzare un'ovvia costante. Si può dire altrettanto della nozione oggi di moda di écriture. Per quanto esaltato da intenti di tono e di stile, un testo è un artefatto, un "pezzo" di linguaggio materialmente affine ad ogni altra forma di linguaggio. Quindi, quando il critico strutturalista-semiotico ci dice che la poesia è parte di un continuum ininterrotto con ogni altro atto semantico e di scrittura - la polizza di carico, la riproduzione del pezzo pubblicitario, la più banale delle notazioni - tutte cose che sono, al pari di essa, écriture, egli sta solo riformulando (e banalizzando) il postulato di materialità implicita nell'oggettivazione percettiva. Egli ripete questo stesso postulato, stavolta in modo più pregnante, quando ci ricorda che la visione ordinante (la critica) può essere intesa come la branca di una più generale "teoria dell'informazione". Quando la materia conta, essa informa. Da qui discende il legittimo interesse del critico nel "come la cosa sia tenuta assieme", nell'anatomia della sua composizione e nella storia della sua manifattura. Il critico d'arte cerca di portare alla luce lo schizzo iniziale, le parti della tela ridipinte in manipolazioni successive. Il critico letterario e il musicologo ponderano manoscritti e cancellature. L'impegno inerente è rivolto alla sostanza storica e temporale (all'immanenza). Ne discende la realtà oggettiva del processo compositivo. Il critico è un "genetista" (laddove forse il "lettore" è un "ontologo". Questa potrebbe essere una sesta antinomia). In un certo senso, che tende a passare inosservato, una tale prospettiva compositiva implica una supposizione di contingenza. L'oggetto d'arte, il pezzo musicale, il testo che si trova "là fuori", con la sua genesi storica, avrebbe potuto non essere o quantomeno essere del tutto diverso. Esso "si ritrova lì" - cosa che non vuol dire certo che l'emergere di un fenomeno in questo o quel luogo, in questa o quella data, in un contesto o in un altro, non debba essere indagato e, per quanto possibile, spiegato. Ma nella produzione di artefatti, per come li percepisce l'oggettivazione della visione ordinante del critico, non esiste nessun imperativo formale o di sostanziale inevitabilità. Esiste, anche a un livello "sublime", una consapevolezza dell'occasione in cui si sono manifestati, un'occasionalità nel senso stretto del termine. Fin qui ho tentato di rendere problematiche e, quindi, di non banalizzare due principali proposizioni. Il critico opera a una certa distanza. La determinazione (e l'onesta analisi) di questa distanza, lo spazio entro e attraverso il quale la sua azione propositiva viene realizzata, sono parte integrante della sua visione ordinante e legislativa. In secondo luogo, h_odetto che egli è distante da e "distante verso" un oggetto, una sostanza che egli trova e situa "in una realtà esistente". Egli mette a fuoco, guarda e apprezza "qualcosa" che costituisce una presenza particolare e contingente. In questo classico scenario, non c'è alcuna fusione tra percettore e percepito. Il critico dopo Aristotele è un realista proprio nel senso formalmente elusivo ma pragmaticamente irrefutabile per cui Kant è un realista quando afferma nella Critica della ragion pura (sez.3) che: "A definire la realtà è il nostro modo di esprimerla, cioè, la validità oggettiva dello spazio entro cui qualsiasi cosa può esteriormente presentarsi a noi in quanto oggetto". Il senso comune è l'ipotesi di lavoro, quello che ratifica la distanza cognitiva. Esso legittima la convinzione che il dipinto non sparirà quando l'osservatore si allontanerà da esso, che automaticamente la sua esistenza, se non il suo livello culturale, è indipendente dal fatto di essere osservato. Abbiamo visto che esistono molti modi diversi in cui il critico può prendere posizione, e che questi modi generano "spazi" diversi o visioni convenzionali (anche se esistono molte angolazioni da cui gli "stessi" oggetti possono essere situati e descritti in modi diversi). Ma mentre, nel caso di mappe geometriche alternative, tale collocazione e descrizione resta formalmente neutrale e, come ci insegna la topologia, interscambiabile, la natura intenzionale della visione del critico, la propositività di questo atto, comporta rapporti molto diversi con l'oggetto. La questione è evidente, ma ha bisogno di essere posta con attenzio35

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