SAGGI/STEINER ampia sia la sua capacità di ricezione, ogni suo atto di ordinamento di una visione è, e può solo essere, "parziale", nel senso che si fonda su determinati pregiudizi. Esso prende le mosse da un'angolazione precisa. E, poiché non esistono azioni indifferenti, non esiste critica imparziale ("oggettiva"). Solo l'immobilità non ha pregiudizi. Ma nella buona critica, i pregiudizi si rendono visibili, diventano consapevoli. Il critico onesto fa una seconda cosa: egli si schiera (la critica è una visione ordinante). Nell'arbitrarietà, che è la condizione epistemologica del suo "mestiere", egli fa rientrare la sua funzione di "arbitro", di arbitrage di valori. L'intenzionalità della sua visione, l'atto di assumere una posizione davanti a un oggetto piuttosto che a un altro, è per definizione preferenziale e discriminatoria. In modi esplicitamente didascalici, o in quelli più implicitamente legati al tropo funzionale dell'"epifania" (in cui l'oggetto si rivela e s'impone da solo all'osservatore), la posizione del critico è gerarchica. Euripide, come legifera Aristotele, "è il più tragico"; necessariamente ne consegue che Eschilo e Sofocle lo siano meno. "Dante e Shakespeare si spartiscono tutta la letteratura occidentale, non esiste un terzo", dice T.S. Eliot. Il suo verdetto è diacritico; esso relega tutti gli altri poeti ad uno status minore. La semantica della critica è inevitabilmente comparati va. Percepire in modo normativo significa comparare. Significa affermare per contrasto, secondo una prassi evidente nel termine arnoldiano di pietra di paragone. Quindi è pura retorica professare che un critico non debba entrare in borsa, che non debba offrire quotazioni di mercato, lasciando queste preoccupazioni al "recensore". Il critico, per quanto eminente, per quanto teorico nei suoi pregiudizi, assegna e ascrive delle valutazioni ogni volta che osserva e giudica. Può far questo per una serie complessa di motivi e con una cura euristica che va ben oltre le effimere tendenze del mercato e della moda. Può, in altre parole, essere un eccelso azionista piuttosto che un frettoloso operatore sul mercato del cambio (anche se la linea di demarcazione è sempre fluida; dove andrebbe tracciata, per esempio, nel lavoro di Hazlitt o di Edmund Wilson?). Ma non meno del recensore, il critico è uno che dà un punteggio. Tira giù Milton e fa salire Donne. "Valuta", per esempio, Holderlin più di Morike; giudica più produttivi nuovi fenomeni, come ad esempio il movimento modernista, concedendo ad essi più attenzione e cura che non ai tardo-romantici o ai georgiani. Gli strumenti della critica, insegna Coleridge, sono "strumenti speculativi". L'analisi critica valuta e paragona. Nella "speculazione" rientra la capacità percettiva come l'evidente azzardo della congettura. E poiché il suo "mestiere" (l'umile termine è di R.P. Blackmur) è sempre derivativo, essendo spesso punitivo e gratuito rispetto a quello dell'artista, il buon critico è uno che dovrà correre dei rischi speculativi. Egli dovrà dichiarare i suoi interessi e aprirsi al discredito. Questo discredito può avere varie forme: il disappunto dell'artista che sta criticando, l'indifferenza del mercato ai valori che egli propone, il ridicolo o l'oblio con cui la storia più tardi coprirà i suoi giudizi. Questa dichiarazione di interesse e di responsabilità speculativi produce una lista (una serie di "quotazioni" nel senso familiare sia alla "borsa" che alla vita delle lettere)'. Essa produce "la grande tradizione", "i cento libri migliori di tutti i tempi", "i maestri moderni". In questo inevita34 bile contesto, la volgarità può essere compensata, e solo in parte, dal carattere del critico, dalla sua prontezza nel continuare a investire sempre di più su un titolo in ribasso se tale investimento corrisponde a un suo lucido convincimento. Il "classico" in letteratura è il "blue chip", l'edizione dagli orli dorati da tempo così valutata dal mercato. Nessun vero critico può o cercherà di sfuggire alla fallacia e alla grossolanità della scelta. La lista del critico stabilisce un "programma di studi". La teleologia del programma è economica. Ci insegna, anche in virtù delle sue omissioni, su quali testi dobbiamo spendere il nostro tempo e le nostre risorse emotive, e quali altri ne costituirebbero invece una perdita. La famosa nota a piè di pagina ne La grande tradizione, in cui si mette in guardia il lettore che tra tutti i romanzi di Dickens solo Tempi difficili ripaga un interesse adulto, è un esempio grafico di questa "economia di programma". Come del resto lo sono le liste di lettura proposte a generazioni di studenti universitari, liste che spesso segnalano determinati capitoli con il manifesto presupposto che il resto del libro non meriti un investimento ulteriore. La motivazione del "programma di studi" è purgatoriale: lo spazio vitale viene depurato e preservato per far posto a ciò che è "duraturo", "autentico", "classico". La materia morta o difettosa viene messa da parte. Troppe tele, tele appese troppo vicine le une alle altre, inibiscono la visione ordinante. Un museo è un programma di studi oculare; si pensi ai sottoscala e ai magazzini strapieni. Il critico seleziona e "valuta" in maniera da ridurre le nostre opzioni di preferenza in base a un metro di assoluta eccellenza, per ridurre al minimo gli sprechi d'energia. Il "lettore" non tende a un programma, ma a un "canone". Questo è un quarto sviluppo della polarità che la mia argomentazione sta esplorando. Naturalmente, resta da definire il "canone". Ho detto che lo sguardo ordinante "oggetti vizza". Ho cercato di mostrare che tale oggettivazione nella critica non ha niente a che vedere con il fantasma dell'"oggettività" - il quale corrisponderebbe alla pura stasi, a un punto zero. Allora cosa s'intende con l'affermazione che è parte della natura stessa della critica vedere ciò che vede come un oggetto? Significa semplicemente che il telos, la cosa a cui si mira attraverso un atto di percezione ordinante, è un dato, un donné. Esso "si pone" a una distanza, da un'angolatura, da una prospettiva che la critica sceglie con un occhio all'intelligibilità e un altro alla valutazione. Questa capacità dell'oggetto o del testo di "essere un dato" nel momento in cui si presenta ali' analisi, ali' elucidazione, e al giudizio, questo "star lì", è una definizione banalizzante. Come può esserci visione se non c'è qualcosa "là fuori" da vedere, qualcosa davanti a cui fermarsi, come se fosse di fronte a noi? Anche questo è un luogo comune, e uno di quelli che hanno considerevoli conseguenze epistemologiche ed etiche. Il postulato fondamentale dell'atto critico è di tipo realistico. Il critico non può operare in un quadrç solipsistico e rigorosamente fichtiano. Egli non può distruggere soggetto e oggetto. Se lo facesse, non esisterebbe nessuna distanza dalla quale, e "attraverso la quale", esercitare la sua visione ordinante. Attaccato alla tela, l'occhio sarebbe cieco. Ma si può andare più a fondo: il postulato critico è materialistico (ed è proprio questo che è alla base del disagio del platonismo quando tenta di fare i conti con la poesia e con le arti). Il dipinto, il pezzo musicale, il testo hanno
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==