paradigma assiomatico da cui essi derivino. Al contrario: tali atteggiamenti prescrittivi sono tipologici; sono molto istruttivi, nella misura in cui rendono saliente l'essenza arbitraria e il libero arbitrio presente in ogni atto in cui prende forma una visione ordinante. A rischio di ripetermi: non possono esistere confutazioni o falsificazioni di natura grammaticale, logica o statistica dell' affermazione secondo cui Shakespeare era un mediocre autore di teatro e Mozart era un compositore di second'ordine. Esse sono perfettamente coerenti nella loro forma e sostanza, intelligibili nel foro modo di porsi (prise de position) verso gli oggetti in questione. Il fatto - ma siamo sempre certi che sia un semplice fatto? - che questi atteggiamenti particolari siano scelti o sostenuti da pochi non ha nessuna importanza. Gli spazi epistemologici non sono passibili di voto. In generale, il tempo fa stilisticamente pendere la bilancia - una bilancia in verità alquanto irrilevante - a metà strada tra l'idiosincrasia e il luogo comune. È fatale che l' avanguardia di oggi faccia sue le cartoline postali di ieri e i modelli in gesso dei laboratori d'arte. Al tempo stesso, la previsione che un giorno il "consenso generale" giudicherà Mozart un compositore di terza categoria è a rigore inopinabile. Ma è un pronostico di per sé privo di interesse. Non ci dice nulla dell'atto critico che lo ha diversamente valutato. Altrettanto vuote sono le dichiarazioni di chi dimostra che i pittori, gli autori, i musicisti che un tempo sono stati giudicati insulsi ciarlatani, vengono oggi celebrati (Van Gogh, Joyce, Wagner). Questi dati appartengono alla storia della critica. Ma l'atto critico, l'atto di proporre una visione ordinante e lo spazio di legislazione intenzionale che essa genera, non hanno storia. Essi sono sincronici. La collocazione che Aristotele diede di Euripide quale "il più tragico" è oggi largamente diffusa e strumentale. Vale a dire che la distanza implicita, l'inquadratura scelta - che in questo caso è una prospettiva particolarmente diretta a cogliere l'intensità del pathos dei tre maggiori tragici - può essere oggi ancora adottata, e stare al passo con i tempi. Con la stessa moneta un domani si mostreranno funzionali i giudizi di Matthew Arnold su Keats o di T.S. Eliot su Baudelaire. Ogni visione ha un suo contesto storico, sociale, locale (e forse persino fisiologico): ma c'è un senso preéiso in cui essa "non ha data". Può essere rifiutata, contrattaccata, censurata, ridicolizzata, stigmatizzata come statisticamente nulla. Ma non può essere considerata come "superata". Dichiarare che Hanslick aveva "torto" su Wagner, qualsiasi cosa s'intenda per "torto" in una tale affermazione, non significa considerare "superate" le sue conclusioni. Quest'atto di volontà, la forma sempre singolare che prende l'atto critico implica che ogni visione ha lo stesso valore? Esistono valutazioni più autorevoli di altre? Oppure è l'irrefutabilità stessa - il fatto che non si possa razionalmente provare che Balzac avesse torto sul conto di Stendhal o che l'arte astratta possa non essere una truffa- a provare che ogni giudizio è intrinsecamente anarchico? Non ho mai visto dare una risposta convincente a quest'ipotesi. Le risposte date sono puramente contingenti. Esse ci dicono esattamente cosa fa un "buon critico". Ma il "livello", lo "stile", la passione innovativa, le influenze, ecc. sono meri attributi o fronzoli post hoc. Non sono questioni primarie. Non hanno forza probante. Sono opinioni su opinioni. Ma forse questo vecchio dilemma può essere riformulato in maniera diversa. SAGGI/STEINER Disegno di Selçuk da "le monde diplomatique". Il critico utile fa due cose. Per prima cosa, rende trasparente il grado di arbitrarietà del proprio discorso.L'angolatura della sua visione ordinante viene chiaramente esplicitata. Vi sono tanti spazi razionali da discutere quante sono le geometrie. Il critico può assumere un atteggiamento la cui configurazione - il termine.figura esprime la perfetta coincidenza tra codice simbolico e gestuale - è il più delle volte moralistica. Egli può ritrarsi dal suo oggetto e chiedersi: che utilità ha per l'uomo e per la società? In definitiva è istruttivo? Le sue proposte implicite e esplicite migliorano la vita? (Mutatis mutandis, il platonismo, la posizione di Tolstoj o quella di Leavis esemplificano quest' estetica, ovvero, per esprimermi in maniera più appropriata, quest'"anti-estetica"). Il critico può operare a una distanza e da una prospettiva storicistica, biografica nel vecchio senso del termine, psicoanalitica nel senso nuovo del termine, marxista o formalista. Il suo percorso può essere per lo più retorico (in una vena squisitamente inventiva, potrebbe equivalere un po' allo "spazio" di visione di Kenneth Burke). Egli può essere-e il più delle volte ci riesce - eclettico e mutevole nella sua messa a fuoco e nell'apertura del suo obiettivo. L' "impressionismo critico" non è meno rigoroso dell' "impegno" e del "determinismo" (per esempio, Sainte-Beuve non è un critico meno rigoroso di Lukacs o di Derrida, se attribuiamo al termine "rigoroso" ogni chiara connotazione di prova e di inopinabilità). La sua è soltanto una diversa stilizzazione dell'esercizio critico, una diversa "coreografia" e quindi un modo diverso di mettere le varie ipotesi in prospettiva. Ma qualunque sia il suo grado di intenzionalità, il critico utile offre questo esempio di identificazione. Egli deve rendere indubitabile la sua parzialità (in parti pris troviamo nuovamente la nozione chiave di "prendere"). La parzialità, in questo contesto, ha due significati principali. Ogni geometria, ogni spazio di percezione argomentato, è solo una delle alternative potenzialmente illimitate (può anche darsi che si possa dire tutto di ogni cosa). Essa è quindi incompleta, "parziale". In secondo luogo, per quanto universale sia il temperamento del critico, per quanto 33
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