Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

11 CRITICO''/ 11 LEffORE'' George Steiner traduzione di Daniela Daniele Geor-ge Steiner ( 1929) teorico della letteratura, saggista e professore di inglese e letterature comparate all'Università di Ginevra, membro straordinario del Churchill College di Cambridge, ha inoltre cariche istituzionali presso le università di Chicago, Harvard, Oxford e l'Institute for Advanced Studies di Princeton. Fra le sue opere tradotte in italiano: Morte della tragedia (Garzanti 1976). Martin Heidegger( 1980). Il processo di San Cristobai (1982), Dopo Babele (l984), Nel castello di Barbablù ( 1990), Le Antigoni (Garzanti 1990). Vere presenze (Garzanti 1992)ellcorrettore (Garzanti 1992). Foto di Giovanni Giovannetti (Effigie). 1. Vale forse la pena di fare alcune distinzioni tra il critico e il lettore, consapevoli che, per metterli meglio a fuoco, questi due termini verranno usati con valore fittizio, e quindi ipostatizzati. Probabilmente, il reciproco rapporto del "critico" e del "lettore" nei confronti del testo non è soltanto diverso ma, per certi aspetti, antitetico. Il critico è un epistemologo. Vale a dire che la distanza fra lui e il testo è di per sé feconda e problematica. Nella misura in cui questa distanza viene esplicitata e sottoposta a indagine, essa genera testi intermedi, correntemente noti come "metatesti". La distanza tra il critico e il "suo" testo - ma in che senso "suo"? -è riflessiva. Essa rende percepibile, drammatizza il suo carattere inibitorio o di traduzione. "Inibizione" e "traduzione" sono le categorie cardinali della distanza del critico. Nello spazio che lo divide dal testo esistono ostacoli e opacità che deve superare oppure additare con decisione. In compenso, il suo testo può essere tradotto in base a modalità analoghe o parodiche di discorso (perché, usata in modo neutrale, la "parodia" è una nozione legittima, capace d'includere l'intera gamma di parafrasi critiche e di equivalenti interpretativi che va dalla stroncatura punitiva all'incantamento mimetico). Inibizione e traduzione sono imparentate perché l'ostacolo di trovarsi "di fronte" al testo impone una perifrasi e uno spostamento ("traduzione"), impedendo al critico di operare una riformulazione completa ed esaustiva, una ripetizione del testo originale. D'altro canto, tale ripetizione tautologica è uno degli aspetti cardinali della "lettura." Il critico rivendica una distanza da e nei confronti del testo. "Criticare" significa percepire a distanza, in una forma di rimozione che permette di chiarirlo e di situarlo meglio (nell'accezione di F.R. Leavis), per poi comunicarlo in maniera intelligibile. Il movimento della critica è quello di "ritrarsi" proprio nel senso in cui ci si allontana di un passo da un dipinto appeso al muro per percepirlo meglio. Ma il buon critico rende questo movimento palese a sé e al suo pubblico. Egli descrive dettagliatamente i suoi passi all'indietro in modo da rendere esplicita, responsabile e quindi aperta alla discussione la distanza che ne consegue, la sua funzione delucidativa, la sua prospettiva prescrittiva-perché ogni distanza implica una precisa angolazione. È quest'attivazione della distanza del critico dal suo oggetto (cioè il "testo" da cui egli si discosta, ma che può essere, naturalmente, anche un dipinto, un pezzo musicale, un'opera architettonica) a rendere epistemologica tutta la critica seria. La critica si chiede ciò che noi ci chiediamo e inoltre: "Come fa la percezione a raggiungere una determinata distanza?" "Come si è scelta questa particolare distanza?". Si potrebbero fornire esempi così evidenti di ciò che qui intendiamo da banalizzare l'implicita questione. Ma per tener fede al discorso iniziale, prendiamo in considerazione le topografie contrastive, le mappe e le opposte misurazioni di un critico storicista del diciannovesimo secolo da una parte, e quelle di un new critic dall'altra- la cui prospettiva è quella del primo piano sincronico, della distance abolie di Mallarmé. Poiché promette chiarezza e pertinenza nei confronti del suo oggetto, poiché la distanza che si stabilisce quando il critico "fa un passo indietro" incoraggia l'analisi, l'esposizione e la trasmissione didattica agli altri- sin dall'antichità esistono metodologie e "scuole" critiche, manuali d'arte, e riviste in cui viene esercitata - la critica è al tempo stesso epistemologica e legislativa. Il problema è centrale, e l'uso del termine critique tratto dall'idioma kantiano lo pone in maniera concisa. Abbiamo detto che il critico si ritrae dall'oggetto della sua percezione per "avvicinarsi di più" ad esso (la messa a fuoco, la chiarezza, l'intelligibilità sono fattori di accesso diretto, di prossimità al fenomeno in esame). Egli stabilisce e rivendica una distanza per meglio penetrare. Egli allarga o restringe l'obiettivo della sua inquadratura in modo da poterlo cogliere più lucidamente. Questo movimento- quello di ritrarsi per avvicinarsi, di socchiudere gli occhi per vederci meglio - implica un giudizio. Perché deve essere così? Perché l'azione (il movimento del critico) non è e non può essere indifferente. Il problema che sto ponendo non è il luogo comune alquanto sospetto secondo cui si suppone che non esistano percezioni libere da pregiudizi o percezioni rigorosamente neutrali - dico "sospetto" perché è quantomeno discutibile che la percezione della corretta soluzione di un'equazione da parte di qualcuno non sia di per sé, tranne in un senso pseudo-mistico, un giudizio di valore. No, ciò che si intende qui è qualcosa di diverso. Il critico è un attivista della percezione. Il suo demarcare, il suo "misurare" il distacco illuminante tra sé e l'"oggetto-testo" è operativo, strumentale, funzionale. Operatività, strumentalità, o funzionalità non sono e non possono essere indifferenti. L'indifferenza non agisce. Che sia poi il "disinteresse" ad operare è una delle questioni che affronteremo successivamente. Il dinamico distacco del critico è esplicitamente intenzionale. Tutti i critici all'opera 31

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