Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

CONFRONTI Uncontestatore negli anni del boom. Attualitàdi Bianciardi Leandro Piantini La fama di Luciano Bianciardi è legata a La vita agra che uscì nel 1962 con grande successo. Non era propriamente un romanzo poiché vi aveva molta parte l'autobiografia e l'io narrante deviava spesso e volentieri dal filo conduttore con numerose digressioni: fatti del suo passato, spaccati della Milano del "miracolo economico", secondo il libero fluire dei suoi umori e del suo estro affabulatorio. Sicché il racconto era intervallato da ampie digressioni sociologiche, da spezzoni di vita metropolitana e dalle mille tribolazioni di un io narrante trapiantato dalla provincia toscana nella Milano del neocapitalismo e dell'industria culturale. Al centro del racconto vi erano il disagio di vivere, le frustrazioni e la rabbia di intellettuale che si campa la vita con le traduzioni, è mal pagato, convive con una donna ma deve anche provvedere alla moglie e al figlio lasciati al paese. Il romanzo piacque molto poiché questo racconto di una vita grama, negli anni dorati della "dolce vita", è condotto con umorismo e con molta disincantata disperazione, ora con cinismo, ora con disarmata malinconia. L'io narrante, Luciano, è un intellettuale "impegnato" che si è trasferito nella grande città industriale convinto che il "sistema", causa dei mali della società che egli vuol combattere, può meglio essere colpito laddove ha il suo cuore propulsore. Il suo non è un generico progetto rivoluzionario, egli ha un obiettivo ben preciso; a Milano c'è il "torracchione", dove ha sede la grande industria chimica responsabile di un delitto rimasto impunito: la morte di quarantasei minatori trucidati da un'esplosione di grisou in una miniera della Maremma di cui è proprietaria la società milanese. Luciano, che amava quegli operai e aveva solidarizzato con le loro lotte, si è assunto il compito di vendicarne la morte; e lo farà minando con il tritolo il "torracchione", simbolo materiale dello sfruttamento. Naturalmente non accadrà niente di tutto ciò, anzi sarà il nostro dinamitardo a diventare vittima del "sistema", relegato ai margini di quel mondo che vorrebbe sopprimere, "tafanato" al punto di doversi arrabattare per la mera sopravvivenza. Sicché dei suoi propositi bellicosi enunciati nelle prime pagine, si perderanno nel corso del racconto perfino le tracce. Come potrebbe, chi vive di traduzioni pa30 gate a cottimo, barricato nel suo quartierino di periferia come in un bunker, costretto a mettere assieme ogni giorno le venti cartelle di lavoro per sbarcare il lunario, aspirare ad altro oltre la sopravvivenza? E così il progetto dell'attentato si annebbia tra i mille guai dell'esistenza. Il nostro eroe si consola facendo l'amore con Anna, e girovaga smarrito tra bar e supermercati, sproloquiando sulle miserie e sul- !' alienazione della vita massificata; qualche spettrale contatto umano e poi via a letto: "e per sei ore io non ci sono più". Che cosa è rimasto oggi dell'opera di Bianciardi? Di sicuro c'è un risveglio di interesse per lui. Feltrinelli ha ripubblicato nel '91 Il lavoro culturale, uscito nel 1957. E nel '92 Longanesi ha riproposto Daghe/a avanti un passo, silloge di racconti ispirati alle vicende del Risorgimento, apparso nel 1969. Ma il vero fatto nuovo è l'uscita degli Atti di un convegno su Bianciardi che si tenne a Grosseto nel marzo del '91, curata per gli Editori Riuniti da Velio Abati, Nedo Bianchi, Arnaldo Bruni e Adolfo Turbanti. Mi auguro che da questo serio lavoro nasca un rinnovato interesse critico per l'opera dello scrittore maremmano. Di questo volume (che s'intitola Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione) contano due aspetti: la messa a fuoco dell'esperienza giornalistica di Bianciardi, e lo studio del retroterra politicoculturale da cui nacque la sua narrativa, quel- !' originale sperimentalismo nutrito di esigenze sociologiche e di succhi morali. Tra i saggi migliori voglio segnalare quello di Giuseppe Nava, che chiarisce come la narrativa di Bianciardi vada oltre il neorealismo mediante l'invenzione di forme omologhe ali' immaginario di una società in forte dinamismo. Felice è anche la scelta di Arnaldo Bruni di porre Il lavoro culturale al centro dell 'analisi critica, come crogiuolo e laboratorio degli sviluppi successivi. Inoltre Rita Guerricchio studia con finezza l'ampia tastiera delle strutture formali de La vita agra, mentre M.A. Grignani si cimenta con la complessa stratificazione delle scelte linguistiche. Infine Velio Abati, ripercorre il tutt'altro che lineare iter ideologico-politico di Bianciardi, giovane, sempre in procinto di diventare "organico" alla politica culturale del Pci, ma inguaribilmente refrattario, per natura, ad ogni "allineamento". Bianciardi fu un contestatore ante-litteram - è questo il suo grande merito storico -, e anticipò molti terni della contestazione del '68. Con occhio lungo e intelligenza profetica fu tra i primi a segnalare l'alienazione prodotta dal consumismo, la "miseria" del lavoro intellettuale massificato, quell'"inferno" che era diventata la città con la seconda rivoluzione industriale. Nella nevrosi della vita urbana perfino l'aria è materia immonda: "È semmai una fumigazione rabbiosa, flatulenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici, del_PRM, delle stenodattilo, è fiato di denti guasti, di stomachi ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati" (da La vita agra, Rizzoli, 1974, p. 165). Il gusto della parodia e della satira fu la dote precipua di Bianciardi e lo fu da sempre, fin da Il lavoro culturale. Nel pigro ritmo della vita di provincia, nel "lavoro" serio e un po' ebete degli intellettuali comunisti, pur così generosi e disinteressati, egli non può tuttavia fare a meno di esercitare la sua vis comica e il suo estro satirico, che diventano mimesi feroce dei tic, dei conformismi, dei luoghi comuni, insomma della mancanza di intelligenza critica della cultura stalinista. Satira che diventa memorabile nel capitolo sesto del libro, quello dedicato al "problema del linguaggio", dove con anticipo di una ventina d'anni vengono sbeffeggiati il sinistrese e il politichese che tanto poi ci hanno aduggiato. Qual era la cultura di Bianciardi? Benché il tema richieda molto spazio vorrei solo osservare come l'idea del sesso, proposto come antidoto alla massificazione, o il progetto qua e là accarezzato di una socialità immune dal consumismo, mostrano in Bianciardi singolari consonanze con idee coeve di Zavattini; penso per esempio allo Zavattini di Miracolo a Milano. E non si dimentichi che Bianciardi aveva molto interesse per il cinema, lavorò negli anni '50 a "Cinema Nuovo", nei cui fascicoli Zavattini pubblicava il suo Diario cinematografico. E c'è un'altra convergenza ne La vita agra con un altro protagonista di allora, Vittorio Sereni, non a caso citato nel romanzo, che aveva espresso con forza nelle sue poesie lo scacco della sua generazione e la fine delle speranze del dopoguerra. Sereni che scriveva: "Ridono alcuni: tu scrivevi per l'arte./ Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro". Anche Bianciardi "voleva ben altro". Anche se c'è tanta rabbia nelle sue pagine, non era la rabbia la sua vera Musa, ma il senso, storico e psicologico insieme, dello Scacco, di una delusione epocale: "Non ero venuto su per documentarmi sulla rotacizzazione della dentale intervocalica (...) non ero venuto su per fare il verso al Querouaques (...) No, e poi no. La missione miaera ben altra" (da La vita agra, cit., p. 37).

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