Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

CONFRONTI la Milanodi ieri per Jlliintellettuali di oggi. Corriassulle tracced1Bianciardi Goffredo Fofi La prima volta che ho letto Bianciardi è stato, mi pare, su "Nuovi Argomenti", la bellissima rivista di Alberto Carocci, verso la metà degli anni Cinquanta. In coda a ogni numero Carocci pubblicava dei documenti: storie di vita, inchieste, autobiografie insolite. Ho l'orgoglio di essere comparso tra i collaboratori di quella sezione, con la prima inchiestina sugli immigrati meridionali a Torino, credo nel·'61. In un'ottima compagnia. Tra gli altri, vi avevano pubblicato Bianciardi e Cassola, che avevano raccolto tra i minatori dell' Amiata storie di vita, documenti umani e sociali di nitido vigore. Ma forse mi sbaglio, bisognerebbe riguardare gli indici di "Nuovi Argomenti". Forse lessi l'inchiesta già completa in volume, nella collana laterziana dei "Libri del tempo" (che non pubblicò più tardi il mio L'immigrazione meridionale a Torino sospettandolo, ohibò, di "trotzkismo" oltre che, con ragione, di "panzierismo") che aveva pubblicato libri bellissimi di: Battaglia e Calamandrei, Jemolo e Scotellaro e Dolci, e tanti altri che oggi Laterza rivendica come atti suoi di coraggio nei confronti della politica togliattiana quando rientravano invece senza difficoltà nella logica togliattiana dell'egemonia, dell'apertura all'intellighenzia della sinistra non comunista, laica o cattolica, in funzione di altre e più consistenti alleanze. I minatori della Maremma era un libromodello, all'interno di una serie di libri consimili che, tra i Cinquanta e i primi Sessanta, potevano far nascere - e così non è stato - una tradizione di inchieste sociali e civili utili a capire e cambiare il nostro paese. Quella tradizione, culminata nelle Autobiografie della leggera di Montaldi (il capolavoro del genere) fu perlopiù estranea o ai margini dei modelli di analisi delle due grandi chiese del tempo, propagandistici e ideologici, e morì con i tecnicismi della nuova sociologia e con la superficialità dell'inchiesta meramente giornalistica, poi dilagata e tuttora dilagante. Non c'era invece allora una tradizione della biografia intellettuale, genere che pareva eminentemente anglosassone e che oggi va invece nascendo con molta, moltissima fatica per i motivi di cui sopra: la superficialità e la fretta giornalistica o la noia "scientista" del- !' accademia. La biografia che Pino Corrias ha dedicato a Luciano Bianciardi (Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini & Castoldi, pp. 191, lire 20.000) è esemplare di un modo di procedere diverso, che unisce agilità giornalistica a competenza, passione e capacità narrativa, ma soprattutto chiarezza di progetto - un progetto che ingloFoto di Jerry Bouer !Grazio Neri). ba questa ricerca ma che può andare, come vedremo, molto oltre, come è nelle intenzioni dello stesso Corrias (un'inchiesta sulla Milano del dopo '77). Perché Bianciardi? Perché Bianciardi è stato autore di altri due libri belli e significativi, Il lavoro culturale sulla comico-epica avventura della diffusione della cultura in provincia negli anni del dopoguerra e all'interno della cultura del tempo e delle sue grandezze e miserie, e La vita agra, un romanzo a fondo autobiografico sulla venuta aMilano del provinciale grossetano per vendicare i morti di Maremma e sul suo "recupero" dentro l'industria culturale, la nascente cultura di massa di cui fu Bianciardi tra i primi a descrivere in modo probante (e divertente) ambiguità e malsanità che hanno via via portato alle aberrazioni attuali. Perché Bianciardi è stato instancabile artefice di quella industria - con le sue mille traduzioni, e con le sue collaborazioni giornalistiche - ma anche sua vittima, una delle prime se non la prima. Perché Biaflciardi non si è piegato alla logica della chiesa rossa (e il suo primo compagno Cassola, per altre e diverse strade, neppure lo fece, fino all'isolamento e alla ossessività delle sue ultime lotte pacifiste e nonviolente) e ha cercato altre strade, non trovandole. Rimanendo schiacciato, infine, dalla sterilità di questa ricerca, finita in una sorta di impotenza e disperazione che l'hanno portato ali' alcol e alla morte. Perché Bianciardi è stato insomma un esempio chiaro, soprattutto se lo si affronta con la coscienza del poi che ne può avere Corrias, di una speranza e di una sconfitta: quella della Resistenza e delle lotte degli anni Cinquanta per un paese migliore; e quella di un singolo intellettuale, rappresentativo bensì di tanti, per una cultura che fosse democratica e attiva, liberatoria e non "omologante", libera è non servile. La sconfitta di Bianciardi, dentro le spire della Milano del boom e della industria culturale al suo rigoglio, è stata davvero esemplare e totale, come forse sanno e non dicono molti degli amici di Bianciardi di allora, testimoni e protagonisti della identica storia ma molto più tolleranti e disponibili nei confronti di quell'industria, di quella logica, delle comodità che ne ricavavano. Sì, bisogna rifarla la storia di quegli anni e di quelle contraddizioni con più lucidità di quanta abbiano dimostrato certi loro protagonisti che hanno sempre, costantemente, opportunisticamente giocato di adesione e di critica, pensandosi per questo liberi e non condizionati. Bianciardi fa in verità moltissima simpatia, più oggi di quanta forse non ne facesse ieri, forse perché la sua sconfitta è più bella di tante vittorie, il suo affondare di tanti rimanere a galla tra opportunismi, ipocrisie e aggiustamenti. Ma fa anche un po' rabbia per la sua debolezza anche se così comprensibile, così simpatica. Ha scontato cedimenti eccessivi, mi pare, e non ha voluto dare ciò che avrebbe potuto, di cui sarebbe stato in grado. Per esempio, che tra i suoi libri solo i tre citati sembrino oggi a noi (e a Corrias) importanti e significativi non è casuale. E il suo attaccamento nostalgico al mondo della provincia e dei "vitelloni" è un tantino risibile, molto complice, molto rivelatore. Come Moraldo, egli se ne è andato in città e come il Mastroianni della Dolce vita ha scoperto di che pasta erano fatti il progresso e il futuro. Non aveva speranza davanti o non voleva averne; non aveva speranza dietro, ed era abbastanza lucido per capirlo. Ha scelto quel vivacchiare ottuso tra Milano e Rapallo che non era certo un 'uscita né una soluzione, ha desistito troppo presto e troppo facilmente, si è lasciato andare. Meglio lui di tanti, ma non ci basta. Tutto questo Corrias lo suggerisce e lo dice lasciando parlare i protagonisti e i comprimari, gettando luce su di lui, Bianciardi, sul nevrotico non di nascita o di vocazione ma di situazione, prodotto dal tempo e dalle sue leggi nascenti, troppo poco contrastate. Che egli abbia scelto Bianciardi è il segno di un bisogno; di ricostruire un passato che lo e ci riguarda, per ragioni di coscienza e insieme per ragioni di progetto. Le contraddizioni non sono infatti cambiate, si sono irrigidite e incupite: l'industria culturale è sempre più bieca, corruttrice e totalitaria, nella sua solo apparente varietà; la sinistra è scomparsa; e non ci sono più neanche gli anarchici, anche se qualche altra minoranza c'è ancora, che cerca altro o diverso. Che infine lo sguardo dell'autore sia pietoso e crudele insieme è profondamente giusto, e profondamente rispettoso verso Bianciardi. 29

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