una cronichetta alla maniera di Sciascia; non fosse per l'inconfondibile intarsio ritmicocompositivo e per l'asciuttezza finemente cesellata dello stile, lontano dalla misura umanistica e manzoniana del siciliano. In una cinquantina di paginette magre, esso ci reca del resto una vicenda assai modesta. Quella di una mediocrissima insegnante - collega della narratrice autobiografica - sottoposta a processo negli anni scelbiani, nonché dichiarata inferma di mente, allontanata da scuola e privata della potestà sul figlio, perché appartenente a una confessione religiosa che fa proibizione delle trasfusioni di sangue. Una storia ben pubblica, se si vuole; rivissuta tuttavia con tale interiorità pietistica, da sfidare qualsiasi didascalismo preconcetto ("A me la religione importa; ma meno se ne parla, meglio è"). Chiamata a prendere posizione dalle autorità scolastiche, la narratrice ci si mostra olimpicamente noncurante dei pregiudizi culturali correnti. "Ebbene?", risponde a una collega di religione, turbata dalla presenza di proposizioni eretiche nei compiti di alcune allieve dell'imputata. "Ebbene?" - ancora pagine dopo - , alla notizia che essa persisteva in incontri intimi con l'ex-marito, ormai convivente con un'altra donna. Si tratta di una saldezza intellettuale, da borghese illuminata e tollerante, che non impedisce d'altronde il coinvolgimento passionale. Secondo il consueto contrasto tra natura e cultura - tanto tipico delle immagini autobiografiche che la Romano ci offre di sé- al superiore distacco critico subentra un solidarismo di donna e di madre dalle tinte fortemente emotive e ingenuamente infurentite. Eccola infatti, veemente, scagliarsi nel corso del processo contro un uomo di toga: "'Come ha potuto permettersi, lei, di incrudelire contro quella poveretta, ripetendo accuse cattive e meschine!' Temo di avergli persino detto: 'Si vergogni!' In modo che al malcapitato non resta che obiettare, più stupito che offeso: "Ma io sono il Pubblico Ministero!"' Non c'è da attendersi molto altro, sul piano degli eventi. "Non mi aspetto gran penetrazione dai resoconti" avverte subito la narratrice "e poi rifuggo dal 'troppo umano"'. Ciò che resta è nondimeno una piccola storia esemplare; rivissuta senza l'ambizione ordinatrice dello storico, o la pretesa oggettività del cronista: piuttosto con la partecipazione irresponsabile del "buffone", del fool riottoso a farsi imbrigliare in partigianerie buonsensaie e prestabilite. Al lettore non disattento, dovrà bastare la fuggevole galleria di ritratti ridotti a piccoli miti personali: oltre l'imputata, la preside, l'ispettore ministeriale, il giudice. E poi l'evanescenza di ricordi posti al limite estremo della cancellazione; ma lucidi e perfetti se riferiti a minuti gesti quotidiani, al transito rapido delle associazioni e delle immagini: residui onirici diurni, di una realtà che giorno dopo giorno si va allontanando nel nulla. Un caso di coscienza vale forse come testimonianza troppo esile. Ma sono oltre quarant'anni che Laila Romano lavora in questo modo: sin dai tempi dei "sogni realistici" conte28 CONFRONTI r 11lul 111.1 , I _..,1,-..,,..,t,...,.,_- Foto di Giovanni Giovannetti (Effigie). nuti ne Le metamorfosi (1951); o del racconto Maria (1953), flaubertianamente dedicato alla propria governante. Ora, con l'uscita del secondo Meridiano delle Opere (Mondadori, L.65.000), si può meglio percepire la coerenza complessiva del disegno: la sua sfaccettata compattezza. Dall'infanzia nell'alto cuneese, mitograficamente e criticamente ricostruita ne La penombra che abbiamo attraversato (1964), alla Torino degli anni '20, in cui si consuma la formazione intellettuale e sentimentale della protagonista ( Una giovinezza inventata, 1979); dalla lunga convivenza con un figlio ribelle alla passione materna (Le parole tra noi leggere, 1969), alle vicende poetiche e tragiche del nipotino(L'ospite, 1973;Inseparabile, 198l);per approdare ali' inno amoroso e spietato composto a seguito della morte del marito (Nei mari estremi, 1987); e poi ancora oltre, con Le lune di Hvar (1991), nella ricerca angosciata di una bellezza umano-naturale che risarcisca della vecchiaia, trascendendone l'imminente finitudine. A introdurre e curare i due volumi mondadoriani, con la consueta precisione e nitore d' apparati, è Cesare Segre (Antonio Rias firma la rassegna bibliografico-critica). È lui a sottolineare, con apprezzabile acume, come l'impianto espositivo della più parte delle opere romaniane sia difficilmente assumibile entro uno schema tradizionalmente autobiografico. Troppo frequente l'intersecazione dei piani cronologici, da un passato rammemorato al presente del discorso; d'altra parte molto alto è il grado di interrelazione tra la protagonista autobiografica e i personaggi cui dà vita; fitti, infine, gli scambi di punto di vista tra l'io-narrante e l'io-narrato. Tutte soluzioni, attinte a un repertorio tecnico di netta ascendenza romanzesca, atte a travolgere senza sosta la sostanziale consequenziarietà (e staticità) di un resoconto esperienziale di tipo autobiografico. Un romanzesco - osserva lo studioso- che pure si va rarefando sulla soglia degli anni '60. Di qui, in coincidenza con Le parole, si assiste a un ulteriore prosciugamento della vena narrati va dell'autrice. Sempre più assoluti e conchiusi si vanno facendo i capitoli (o lasse, o "brevi respiri", come li aveva chiamati il De Robertis); ora più che mai scanditi da chiose morali e ipotesi psicologiche; da inserti di indole documentaria: lettere, fotografie, disegni, sogni. Una tendenza -si potrebbe aggiungere- che raggiunge il suo culmine oltranzistico con Le lune di Hvar; là dove anche lo stile, tanto felicemente elaborato dalla Romano, mostra di frantumarsi in sentenze telegrafiche, o appunti descrittivi quasi resecati dati' occhio che percepisce. È tuttavia assai difficile stabilire quanto la prosa romaniana, nel suo impulso di veridicità autobiografica, abbia assunto dalle tecniche di narrazione romanzesca; e quanto, viceversa, l'autrice abbia ammodernato il genere autobiografico piegandolo a soluzioni diegetiche di tipo romanzesco. Impossibile, d'altra parte, scordare i contributi che la letteratura moralistica, la filosofia aforistica e soprattutto il genere diaristico hanno recato a questa prosa. Certo, ciò che appare ora nel complesso, è un vasto mosaico di narrazioni in prima persona, ad altissimo tasso di veridicità referenziale e spesso richiamantesi le une con le altre, nelle atmosfere, nei personaggi. Un mosaico che sensatamente il lettore potrà riconoscere come narrazione autobiografica di una vita intera. Come grande saga familiare; utile, altresì, alla messa a fuoco di differenti fasi storiche e di ci viltà. Da quella contadino-patriarcale, a quella urbana e neo-industriale; dalla Torino liberal-gobettiana, alle turbolenze sociali dei tardi anni' 60, con il loro profondo incidere sul costume privato e familiare. Sino alla nostra tarda modernità, disillusa e bisognosa di risarcimenti ("solo le piccole storie esistono. La Storia non I' afferriamo. lo chiedo soltanto di contemplare in pace la bellezza del mondo"). Era del resto Gramsci a ricercare nelle autobiografie, con quel tanto di narcisistico e di mitopoietico, i documenti utili a una descrizione molecolare del mutamento. Una cosa va comunque riconosciuta fuor di dubbio ali' opera romaniana: l'elevazione di una scrittura - che rimane diaristica nei suoi costituenti di fondo - a livello d'arte. Questa la novità più salda che essa ha introdotto nella civiltà letteraria nostrana. Una prosa che per rigore selettivo, fascino ritmico, originalità pausativa, sfrondamento sintattico e immediatezza comunicativa ha da essere comparata con la sola lezione calviniana. Dal diarismo come dal genere epistolare e dalla scrittura autobiografica - form~ cardine della modernità letteraria al femminile-, e ancora dall'onirismo, spogliato da intenzioni surrealiste e da implicazioni freudiane; da un'attitudine estetico-visiva frutto di approfondito tirocinio pittorico, Laila Romano ha tratto (ha inventato) una tipologia di racconto dotata di una singolarità a tutt'oggi pressoché inimitata.
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