Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

CONFRONTI Nei dintorni dell'horror. Ancora su "l'erede" di Gianfranco Bettin Mario Barenghi Un buon successo di pubblico sta confortando l'ultima fatica di Gianfranco Bettin, L'erede {Feltrinelli, pp. 180, L. 20.000), ricostruzione narrativa di uno dei più sconvolgenti fatti di cui a mia memoria si sia mai occupata la cronaca: l'uccisione dei due coniugi Maso da parte del figlio non ancora ventenne, Pietro. Nessuna ostilità palese, nessun rancore ali' origine del delitto: movente unico, il desiderio di arricchirsi rapidamente e senza sforzo. Questa la confessione che risulta dal verbale dei carabinieri: "Nel mese di novembre del 1990 mi è venuto in mente di condurre una vita brillante e quindi mi servivano molti soldi. Per avere questo denaro, l'unica soluzione possibile era quella di aver subito l'eredità che mi spettava dai genitori qualora fossero morti, nonché mi sarebbe piaciuto di averla intera, dovendo così essere costretto ad uccidere anche le mie sorelle". Goffamente ma gelidamente meditato, il piano trovò attuazione la sera del 17 aprile 1991, quando, con l'aiuto di tre amici, Pietro massacrò padre e madre a bastonate. Di questo episodio si è parlato molto. Sarebbe però sbagliato ridurre il libro di Bettin ad occasione o strumento per proseguire una discussione che peraltro è bene prosegua, soprattutto (ma non solo) nelle aule scolastiche. Se infatti l'argomentos'imponedasé-es'impone con terribile, ineludibile urgenza- il libro presenta un grande interesse anche sul terreno propriamente formale. Non che si tratti di un libro "bello"; anzi, per certi versi potrebbe essere considerato perfino brutto. Noioso però mai, al contrario. Pur sapendo benissimo come andrà a finire la storia, lo si legge d'un fiato: le stesse disuguaglianze e contraddizioni del racconto, anziché intralciarne lo svolgimento, paiono riflettere un'intima angoscia, un bisogno di capire insieme acuito e tormentato da un istintivo ribrezzo. L'erede ha per sottotitolo "una storia dal vero". Non "una storia vera", espressione che, oltre a far pensare immediatamente a un romanzo, presenterebbe la verità alla stregua di un possesso certo: bensì un'approssimazione al "vero", cioè all'accaduto, che aspira al tempo stesso a cogliere una verità più profonda. Che cosa accaduto, è la domanda che si pone Bettin: non laggiù, quella notte, in quella certa casa di Montecchiadi Crosara, ma a quei ragazzi, a quel paese; che cosa è accaduto, che cosa accade aquesto paese, a questo nostro tempo? Nella vicenda di Pietro Maso Bettin ravvisa "l'eredità di un lungo passato e le tensioni che più urgono nel presente": ripercorrendola, occorre quindi cercare di afferrare qualcosa "che non è più solo causa di un delitto ma che esiste in sé e che dunque è un esito, una presenza, piuttosto che un residuo o un accidente. Qualcosa che esiste non solo nelle vicende eccezionali, in episodi rari ed estremi, bensì nella normalità, l'ineludibile normalità di ognuno dei nostri giorni". Questo - e cos'altro? - dovrebbe es.sere, aggiungiamo noi, il compito precipuo della letteratura; anche della letteratura d'invenzione, e specialmente della narrativa romanzesca. Ma Bettin, pur narratore in proprio (Qualcosa che brucia, 1989), nutre verso la letteratura una certa diffidenza. Sa di avere tra le mani un materiale adattissimo a generi come il thriller o l'horror, ma teme che l'adesione a quei modelli di scrittura possa compromettere l'intento conoscitivo del suo lavoro. Così batte una strada diversa, quella del romanzo-reportage, del non fiction novel alla Truman Capote. Preoccupato di stornare il lettore da un coinvolgimento emotivo che facilmente preluderebbe a catarsi liberatorie, si appella all'intelletto e alla coscienza, tenendosi alla larga dalle accensioni fantastiche; e, accantonando ogni proposito di perfezione estetica, esalta anziché dissimulare le disomogeneità del testo. I diversi modi e "stili" espressivi - il resoconto cronistico, l'inchiesta documentaria, l'analisi introspettiva, il commento sociologico, la narrazione, il dialogo- sono più spesso assemblati che fusi; se la scansione per brevi paragrafi non imprimesse all'intero discorso un andamento spezFoto di Marco Pesaresi (Agenzia Contrasto). zato, sincopato (con effetti variabili di accelerazione e decelerazione di ritmo), i trapassi potrebbero apparire perfino troppo bruschi. Discontinuità non dissimili caratterizzano anche il trattamento del tempo e del punto di vista. U racconto presenta un avvicendarsi serrato di prospettive personali e cronologiche, ripercorrendo senza posa, avanti e indietro, i dintorni più o meno immediati del delitto. Vediamo ad esempio com'è organizzato il cap. IV. L'attacco ha un piglio decisamente narrativo: un amichevole colloquio, avvenuto due giorni prima del delitto, tra la madre di Pietro e uno dei futuri assassini, Paolo, in procinto di partire per il militare. Segue un rapido sunto degli'antefatti recenti della vita di Paolo: i desideri, gli impieghi e i licenziamenti condivisi con Pietro, il sogno frustrato di diventare pilota, l'imminente servizio di leva. Il secondo paragrafo è dedicato al padre di Paolo: brani da un'intervista all'inviato del "Corriere della sera", rilasciata subito dopo il processo, incorniciano un sintetico flashback in cui tra l'altro trova posto un'elaborazione narrativa dell'ansiosa attesa del ritorno di Paolo, interrogato dai carabinieri ("Certo, per un ragazzo, essere sfiorato da una storia così può essere traumatico. E Paolo è così sensibile. Sarà meglio parlargli, al più presto"). I paragrafi successivi presentano un'analisi del comportamento di Paolo in tribunale, la descrizione delle sue abitudini e del rapporto con il gruppo; poi il discorso ritorna sulla sua amicizia con Pietro (le comuni esperienze di lavoro, l'ossessione del denaro), intrecciando brani delle deposizioni (ripresi dai verbali), squarci narrativi (ancora le inquietudini del padre ignaro), il dialogo (immaginario) nel quale Pietro aveva proposto il suo piano all'amico, le conclusioni della perizia psichiatrica (citata testualmente), digressioni sull'entusiasmo di Paolo per un film dell'orrore, Nightmare, in forma ora di commento sulla violenza in TV, ora di analisi introspettiva (l'assassino del film come compagno segreto, premonizione di un risvolto inconfessato dell'io: "In quel vuoto che resta a volte la notte, dopo una·giornata assolutamente normale, dopo gli amici, la famiglia, la fidanzata, e prima del lungo sonno fino all'indomani, Freddy fa compagnia a Paolo"). Ora, la tortuosità del percorso narrativo, l'andirivieni incessante tra i vari punti-chiave della vicenda, l'arrovellarsi su moventi e pensieri indecifrabili non mancano di efficacia: valga per tutti il ritorno quasi ossessivo sul momento in cui Pietro svela agli amici il suo criminale disegno, cruciale nesso tra "normalità" (il desiderio di godersi la vita) e "anormalità" (l'indifferenza assoluta per il valore della vita altrui, e, peggio, della vita dei genitori). Tuttavia proprio la funzionalità espressiva di certi procedimenti mette in risalto una contraddizione. Bettin, come abbiamo visto, si propone di rifuggire dell'horror. Per questo forse sceglie di elaborare narrativamente, di "scrivere" con maggior impegno stilistico non tanto i 25

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