cristiana (e forse della verità in generale). Dal primo punto di vista, ricordo il tema della sostituzione ("Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo, e mia diletta quella che non era la diletta", Rm 9,25) che si collega alla parabola degli invitati sostituiti dai poveri (Mt 22, 1-10; Le 14, 15-24): c'erano degli invitati, oppure degli eredi legittimi, nei quali il padrone di casa riponeva le sue speranze; però la fiducia è stata tradita e il padrone di casa rivolge la sua offerta ad altri, che l'accetteranno ben volentieri. La sostituzione costituisce (rispetto alla originaria base ebraica) un allargamento a popoli e culture nuovi, perciò anche una de-sacralizzazione o de-ritualizzazione (universalità, mondanità, secolarità dell'annuncio). Se - afferma Paolo - "diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede (poiché non sarebbe sicura attesa di un dono, ma pretesa di contraccambio, rispetto alla propria osservanza legale dei comandamenti) e nulla la promessa" (che è rivolta gratuitamente a tutti gli uomini: cfr. Rm 4, 14). "Così anche al presente c'è un resto (cioè una piccola parte fedele di Israele, che ha accettato Cristo), conforme a un'elezione per grazia. E se lo è per grazia, lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,5-6). Nella osservanza legale ebraica stava una insistenza sulla particolarità, sulla eccezionalità (sul "vanto") di questa religione in contrasto con quella di altri popoli e con la loro identità storica; ora anche il "resto" scompare nella moltitudine di uomini non-ebrei che seguono Cristo nella nuova forma secolare dello "spirito". Dal secondo punto di vista (dell'abbassamento della dimensione etica) bisogna subito osservare che nella concezione di Paolo l'obbedienza alla legge, pur dovuta, non è possibile all'uomo che non abbia subìto una radicale trasformazione, che non abbia accettato una specie di morte che dà la vita. Il problema decisivo non è quello di sapere cosa è giusto, cosa si deve fare (perché tutti, anche i pagani, hanno idee in proposito: Rm 1,20), ma di poterlo fare. Quindi Paolo opera una specie di rovesciamento: non esiste nessun tipo di obbedienza che ci metta in una condizione di potere davanti a Dio; anzi l'obbedire è un dono, che ci può raggiungere quando siamo ancora in una condizione di peccato (Dio viene indicato come "colui che giustifica l'empio", Rm 4,5; cfr. Le 15,20: "Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò"). L'uomo "religioso" crede (astrattamente) nel valore e nella bontà della legge, ma poiché non ha realmente condiviso la morte di Cristo, non è libero dal peccato e vive nella contraddizione (le famose parole di Rm 7, 1524). "Se infatti siamo stati completamente uniti a lui (Cristo) con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato ... Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato" (Rm 6,5-7). È la differenza più profonda tra un'etica naturale o filosofica (che pure cono24 CONFRONTI sce e condivide certi valori) e la partecipazione alla morte-resurrezione: la prima considera il bene, vede ciò che è giusto, ma non ha la forza di attuarlo (di qui il limite di ogni impresa morale autonoma, il velo di tristezza che per occhi cristiani si stende sull'antichità classica, sul mondo pagano). E noi siamo liberi, "se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gioia" (Rm 8, 17). 3. Il libro di Bori ci fornisce strumenti utili per pensare anche in questa direzione. Secolarizzare significa "salvare l'essenziale" (e in questo senso non possiamo e non dobbiamo, noi che viviamo nei paesi cattolici, prescindere dall'esperienza protestante, specie da quella dell'800; è quello che voleva Bonhoeffer e vuole Bori sulla sua traccia), ma che cos'è a questo punto l'essenziale? Che cosa significa essere uniti a Cristo "con una morte simile alla sua"? Questa frase sembra alludere a qualcosa che si realizza nella sfera delle forme, delle figure. Vi è anzitutto la figura, presente in molte culture e religioni, dell'innocente perseguitato, del giusto sofferente, come sono Giobbe, Socrate, Edipo. E poi il ruolo del dolore, o meglio della sventura (penso alla definizione che ne dà Simone Weil, anche con riferimento al Cristo), soprattutto se associato alla funzione di verità (alla testimonianza) e ali' esclusione e alla marginalità sociale, alla vergogna (Lettera agli Ebrei 13,12-14). Sono elementi universali ma anche tipicamente cristologici, che permetterebbero di pensare la trasformazione, che è alla base del comportamento etico, in senso secolarizzato: perché, come diceva don Milani, vi sono anche "coloro che scoprono se stessi, dopo morti, amici e benefattori del Signore senza averlo nemmeno conosciuto" (citato da Bori, p. 79). Bori ha pensato pressappoco tutta questa situazione nei termini di un'alternativa, fra lettura secolare e teologica (il suo metodo comporta "la rinuncia ad ogni ausilio teologico", p. 81), tra etica e cristologia ("nella prospettiva che ho scelto non c'è posto per una "cristologia" ... L'interesse essenziale è invece l'etica", p. 82). Ma l'etica da sola non si regge, anche se nella prospettiva di Bori non sappiamo o non possiamo dire come renderla efficace (la Lettera ai Romani pesa a mio avviso come un masso su questa discussione): "Dirò comunque ... che operare secondo la legge è dono, e segno (sempre problematico) di fede e di grazia, e di elezione. Ma questo significa già penetrare in uno spazio teologico" (p. 81). Io invece cercherei (mantenendo il quadro di secolarizzazione e la ricerca interculturale) non solo dal lato delle norme, delle regole di comportamento, ma anche da quello delle forme o delle figure; perché la pratica del bene si radica in una condizione di morte o di rinuncia, ma questa condizione ha un valore universalmente umano - cioè, non appartiene soltanto al cristianesimo e forse neppure alla religione (''una morte simile alla sua" significa: una morte socialmente vergognosa, subìta nell'atto di dare testimonianza alla verità e senza speranza di una rivincita mondana). 4. Secondo Bori, una lettura secolare dei testi cristiani favorisce l'incontro fra etica e politica: anzi era questo uno dei motivi fondamentali della lettura non-teologica. "Nel grave momento attuale, il compito più urgente non è teologico, ma quello di superare la separazione tra etica e politica ..." (Tesi V, pp. 8,83). "La separazione tra politica, etica, religione ha costituito e costituisce una rivendicazione necessaria, laddove l'etica sia di carattere confessionale e quindi eteronoma ... Si tratta però appunto di rendere presente nel politico un'etica che conservi il nucleo essenziale e radicale della tradizione religiosa, ma ridimensioni drasticamente le modalità eteronome con cui l'etica tradizionale si configura, con il rinvio ad autorità esterne alla coscienza" (p. 86). Io nutro qualche dubbio in proposito, collegato al fatto che in questa prospettiva abbiamo certamente una nozione dell'etico, ma non ne abbiamo nessuna del politico; e dunque potrebbe accadere che, come in certi periodi bui della storia la politica ha occupato lo spazio della morale, adesso la morale pretenda diventare la guida, o peggio ancora la sostanza dell'attività politica (non è una preoccupazione teorica: oggi la sinistra, dopo il crollo di tutte le tradizionali dottrine, e nel vuoto di comprensione e di elaborazione dei processi sociali, rischia davvero di affidarsi a un moralismo inefficace). Allora bisogna dire con molta chiarezza che l'economico (come perseguimento del proprio interesse, del proprio vantaggio, anche materiale) è parte integrante del politico (secondo l'espressione di Rousseau nel Contratto sociale, la politica è "accordo mirabile dell 'interesse con la giustizia"; ed. Gerratana, Einaudi 1966, p. 46). Con questo non voglio accreditare unilateralmente il realismo un poco bieco dei nostri governi (aiutati come sono dalla riduzione consumistica della vita sociale alla vita economica, che essi stessi producono e favoriscono). Però vi sono stati certamente dei R1omenti privilegiati (penso all'affermarsi storico della borghesia, e più tardi del proletariato) in cui un nucleo di valori umani universali ha coinciso, di fatto, con il realizzarsi degli interessi di un gruppo sociale; e cioè che Marx, sulla traccia di Hegel, intendeva come valore storico-uni versale della classe vincitrice. Ma non vi sono mai stati dei momenti, che prevedessero l'affermazione di principi generali astratti, senza radicarsi nel corpo di un bisogno o di un'aspirazione concreta. Lo stesso movimento operaio, lo stesso partito comunista, hanno rappresentato gli operai e i contadini: non la loro cultura o le loro idee, ma la loro richiesta di benessere materiale e di peso politico. Tutto questo per dire che il rapporto etica-politica, nel contesto che stiamo esaminando, mi sembra squilibrato a favore dell'etica; mentle la giusta partecipazione del1'etica a questo rapporto si ha quando il perseguimento di un interesse (che non può essere altro che un interesse di parte) coincide con l'affermarsi di un valore universale. La politica, nel caso migliore, è il congiungersi dell'etico e dell'economico, l'apparire dell'interesse come un valore e del valore come un interesse (altrimenti chi provvederebbe a realizzarlo?).
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==