Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

privilegiata ed esclusiva della realtà, una sconfinata fiducia nella parola che non tiene conto del fatto che proprio quando la possibilità di parola si mette in dubbio, confrontandoti con la sua negazione (chiamiamolo silenzio, o quel1'orrore che la storia del nostro secolo continua a elargire a piene mani), proprio in quel momento essa acquista il suo senso più autentico e necessario (così è per gran parte degli autori del Novecento cari ad Affinati). Il secondo aspetto, in qualche modo conclusivo, può sembrare contraddittorio rispetto al primo, ma solo a uno sguardo superficiale. Esso appare in evidenza nelle pagine di VegLiad'armi in cui si riflette sulla necessità, in Tolstoj, di CONFRONTI mantenersi entro il limite, seppure contestato e continuamente discusso, della narrazione e del romanzo. Questa necessità non coincide con una fede nella finzione narrativa in sé e per sé, ma diventa l'unico strumento per "scavalcare la letteratura", e per cercare quell'autenticità e quella necessità che dovrebbero essere il primo scopo di uno scrittore. Perché ciò che animava la narrativa di Tolstoj era un bisogno di immaginare vite diverse dalla propria e di rappresentarle per dare loro voce: un "sentimento di tenerezza verso gli uomini" che, oggi come allora, è più importante di ogni disputa sulla validità o meno del romanzo come genere, e sulla sua presunta fine. Una lettura secolare dei testi cristiani Guglielmo Forni I. Il libro di Pier Cesare Bori, Per un consenso etico tra culture. Tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane (Marietti 1991, pp. 93, Lire 16.000) è un libro che costringe a pensare, ed è dunque un libro importante. Bori intende globalmente le scritture ebraicocristiane come un movimento verso la verità e l'universalità dell'umano (e in ciò si sente - attraverso Bonhoeffer-1' influenza di Harnack, che la teologia del '900 aveva cercato di rimuovere completamente dal nostro orizzonte culturale). Questo movimento, che esiste oggettivamente nel testo e che l'interprete non fa che riprendere e prolungare (fino all'incontro con altre culture) è in sostanza una secolarizzazione del messaggio precedente, che sottraendolo ali' esteriorità sacrale o rituale, alle particolarità di un costume o di un popolo, lo rende disponibile e praticabile a tutti gli uomini, da qualsiasi situazione provengano. "Dalla propria cultura è difficile, probabilmente impossibile uscire: ma è importante, nel contatto con altre culture, valorizzare anzitutto nel nostro contesto quegli elementi che siano suscettibili di un'interpretazione in direzione universalistica. Questo processo di interpretazione si regge sulla premessa che particolarità e universalità non sono tra loro in contrasto, e che una tendenziale, inespressa e mai pienamente esprimibile universalità si dia" (p. 39). Non si tratta quindi di cercare un "eclettismo filosofico-religioso" di stampo illuministico (ricerca degli elementi comuni, costruzione di un metalinguaggio), ma di procedere a una "dilatazione" della propria tradizione culturale ("allargamento" come "secolarizzazione-espansione", p. 27). Secolarizzare significa interiorizzare e universalizzare (p. 86), "salvare l'essenziale" (p. 43). Questo criterio fu applicato dapprima dal cristianesimo delle origini alla tradizione giudaica: "La predicazione di Gesù è essa stessa un atto di interpretazione secolare, "intramondana", della tradizione legale ebraica. La secolarità non costituisce il nucleo contenutistico della predicazione di Gesù ... ma costituisce la preoccupazione fondamentale con cui Gesù guarda alla legge, punto di vista che va ricostruito dall'interprete" (p. 15). Egli operava "una severa critica ad una concezione sacrale dell'adempimento legale", spostando l'attenzione "verso la coscienza, verso il 'segreto', il 'cuore' dell'uomo: un richiamo intransigente ai contenuti essenziali della legge, che però al tempo stesso si trasformava in una accoglienza di quanti potevano essere esclusi per motivi puramente formali" (p. 47). E in questo senso vanno intesi anche tutti quei cenni a una sapienza modesta o comune, rivelata ai piccoli, a un giogo leggero, e così via (p. 48). 2. Di Paolo, Bori non parla quasi mai, anche se la sua posizione è ovviamente sottesa a tutta la discussione. "Dal punto di vista che abbiamo scelto (l'interpretazione "non teologica"), la posizione di Paolo si risolve e si spiega inevitabilmente come un avvaloramento della legge stessa, intesa come "legge spirituale", come prolungamento dunque, approfondimento e traduzione coerente dell'istanza universalistica e secolare già presente in Gesù" (p. 75). Ma che cos'è l'interpretazione non-teologica? Secondo Bori una lettura secolare lavora nel senso nonteoretico (non-dottrinale) di un orientamento nella vita, di una indicazione per la prassi; una lettura secolare ("sapienziale" ma non "mistica") costruisce una proposta etica potenzialmente universale, in stretto rapporto al sapere pratico dell'umanità comune (da questo punto di vista ci sarebbe tutto un discorso da fare sui proverbi, le fiabe, ecc., come ad esempio si trova in Simone Weil, che del resto Bori conosce benissimo) e aprendosi ad altre proposte, provenienti da diverse aree religiose e culturali: "per un consenso etico tra culture". Questo modo di privilegiare l'etica può suscitare anche perplessità. È stato osservato recentemente (Piero Stefani, ne "Il Regno-Attualità", 14/1991, p. 484) che forse non è l'etica il centro o il nucleo più profondo della Scrittura; esiste un altro paradigma biblico capitale, quello dell'"esodo", della "profezia", del "messianismo" (che si secolarizza fino a "rivoluzione"). Questa prospettiva è, secondo Stefani, almeno altrettanto biblica, e aperta al discorso politico, ma meno direttamente spendibile sul terreno interculturale. Altri fanno valere invece altri elementi, come l'evento fondatore, la comunità che accetta l'annuncio di salvezza, la follia o la stoltezza della croce (attingo ancora alla recensione di Stefani). A me sembra soprattutto, almeno nel caso di Paolo, che si tratti di riconoscere la "secolarizzazione" come tendenza centrale, decisiva, del suo discorso; ma una secolarizzazione che subordina sistematicamente la dimensione etica, che l'allontana dal centro o dal nucleo della verità Dal filmdi RobertoRossellini Attidegli Apostoli. 23

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