IL CONTESTO incomprensione e mentre lo avevamo nelle mani ce ne liberavamo con il metodo del suicidio, stupendo tutti i nostri avversari. Nel nome dell'idea di libertà ci siamo schierati in difesa dei detenuti che, dopo l'amnistia, hanno raddoppiato la criminalità nella società. In seguito, ci siamo messi a difendere i comunisti, che gli stessi che ci seguivano volevano sbattere fuori dalle loro funzioni direttive nelle imprese. Abbiamo poi preso le difese dei Rom e delle minoranze etniche. Sempre in nome della stessa idea ci siamo messi contro la maggioranza assoluta nella disputa sulla legge per la lingua, che privava le minoranze del diritto di usare la propria lingua nell'amministrazione. Siamo diventati il più grande nemico ed il benvenuto bersaglio degli attacchi dei movimenti nazionalisti. Ed infine, con tutti gli sforzi possibili e dall'alto del potere, ci siamo disfatti del nostro amato presidente (Vaclav Havel, N.d.T.), che avevamo noi stessi voluto e sostenuto. Tutto ciò, in buona sostanza, perché ci siamo istintivamente difesi dal potere, che minacciava di ingoiarci. E ciò in un paese, dove il governo e l'autorità hanno un legame millenario con Dio, dove il potere è stimato e, chi non lo stima, è degno di essere ripudiato. Questo principio pieno di contraddizioni, del potere degli impotenti, è saltato fuori con evidenza soprattutto nei dibattiti, qualche mese dopo la rivoluzione, quando è iniziata la campagna elettorale. Dal punto di vista storico il movimento VPN già da allora aveva in pratica svolto il suo compito e portato a termine il suo obiettivo: liberando la società dal monopolio del partito comunista e garantendo, con la sua presenza, la preparazione di libere elezioni. Ci trovammo allora davanti ad una decisione, che in definitiva tocca a tutti coloro che iniziano una qualsiasi rivoluzione: continuare in quello che già, comunque aveva cambiato radicalmente le nostre vite, riconoscere il cambiamento da originari oppositori del regime in soggetti di potere e rischiare di perdere non solo i mandati originari e le certezze, ma anche l'identità originaria, che ci eravamo, sotto la pressione del sistema totalitario e a fatica, costruiti. Potevamo non continuare, avremmo potuto essere di nuovo quelli che eravamo prima, e per sempre rimpiangerò di non aver fatto quel tentativo. Se non altro perché nella storia delle rivoluzioni sarebbe stato il primo. Per essere giusto devo dire che alcuni ci sono riusciti e lo hanno fatto per tempo. Noi altri ormai riflettevamo, nelle discussioni sul futuro del movimento, sotto la pressione anche dei primi segni di inimicizia. Andare alle elezioni e vincerle poteva essere il modo per affermare la propria legittimità ed affermare così anche la legittimità dell'idea che aveva messo in moto la rivoluzione. Poteva essere il modo per decidere di fatti storici, che già da allora si cominciavano a mettere in dubbio. Per gli intellettuali, l'idea della falsificazione della storia eramotivo sufficiente per far confluire tutte le proprie energie nello sforzo della legittimazione. Inoltre, conoscendo intimamente la storia delle rivoluzioni e il triste concetto che esse divorano i propri figli, vedemmo nelle elezioni democratiche una qualche prevenzione, una qualche liquidazione della rivoluzione, e la nostra parte in ciò doveva essere, allo stesso tempo, la liquidazione del collegamento minaccioso delle esperienze storiche. La decisione di andare alle elezioni aveva però anche un fondamento del tutto razionale: tutti gli altri nuovi partiti e Foto di PeterMenzel.
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