to, perfino del razzismo europeo bianco, che arriva ad un populismo della superiorità di sangue che riprende l'amalgama della cultura e della stirpe nazionale ed europea. Ma forse tutto ciò non è altro che la "mescolanza" di una cultura generazionale urbana medializzata, che diventa la cultura delle città del mondo, cosmopolita sotto forma folk e pop, per non dire rap. Pur nel miserabilismo, è in tal senso che questi movimenti, per discontinui che siano, sono anche transnazionali, ed in questo senso è un cultura di diaspora. Non è una scusa il riconoscere che il termine cultura è qui adoperato in senso lato e sfumato, fino a quello di cultura di massa e fino a giocare su tutti i registri. Può il termine essere tenuto al guinzaglio da una definizione? Sostanzialmente il problema del pluralismo culturale è qui legato al nazionalismo e al discorso sull'identità. Poiché la diversità culturale favorisce, nei conflitti e nell'immaginario, una reale etnicizzazione dei rapporti sociali IL CONTESTO che perdono così la loro chiarezza, il problema del pluralismo culturale non appare più come un problema sociale. Non significa fare del riduzionismo sociologico o marxista se il problema lo si inserisce nel campo delle contraddizioni e delle pratiche di discriminazione e segregazione, e nel campo ideologico che sostiene le definizioni di identità e gli impulsi collettivi, che orienta, fossilizza o rinnova le pratiche culturali. In questo passaggio da culture di comunità a culture generazionali, anche attraverso la miseria sociale e esistenziale e la povertà simbolica, viene messa in discussione la sottomissione alle norme della comunità; è il significato contro-culturale di quei clamori, correnti, lineamenti, emergenze simili e diverse. Non significa recuperarli il pensare che, al di qua di un'utopia impaziente di internazionalismo, e sotto il dilagare stesso delle reazioni nazionaliste, si produca il disincanto del mondo comunitario e del nazionalismo di identità, che in questo modo lascia trasparire un pluralismo culturale altro. Da una piccola nazione Riflessioni slovacche Martin M. Simecka traduzione di Manuela Vittorini Sono trascorsi due anni dal momento in cui l'Europa orientale ha cominciato a cambiare volto. La maschera immobile di un sistema chiuso è andata in frantumi e sotto di essa è apparso, in un primo momento, un tenero sorriso. Poi ha cominciato a trasformarsi nelle più diverse smorfie e oggi ormai nessuno sa qual è il reale aspetto di questa parte d'Europa. Sembra che, per la comprensione del significato e del senso storico degli eventi dei due anni trascorsi, saremo costretti ad aspettare ancora un po' di tempo. Nonostante ciò, non resisto e rifletto spesso su ciò che è veramente accaduto. Sul perché tutto si è svolto così come si è svolto e mi chiedo se la storia abbia delle sue leggi, alle quali nessuno di noi sfugge. Io stesso mi sono invischiato nella storia, mi sono trovato per un certo tempo nel suo vortice e, in silenzio, mi consolo per essere stato piuttosto un suo osservatore e per non aver avuto molte occasioni di sciupare qualcosa. Mi sono trovato nel novembre dell'89 nel gruppo di quei rivoluzionari insonnoliti ed esauriti, con gli occhi febbricitanti, più o meno perché erano, per la maggior parte, miei amici e sono rimasto tra di loro non solo perché pensavo che fosse in qualche modo mio dovere, ma anche perché non sono riuscito a resistere al richiamo di una grande avventura. Oggi ho una sensazione assolutamente egoistica di felicità per la ricchezza acquisita, la stessa che probabilmente ha un ladro quando cammina con il bottino verso il suo covo. Il mio bottino è un'esperienza affascinante. Mi sono trovato nel tempo che gli antichi Greci chiamavano kairos, un tempo che è un vivere intensamente il presente e che si incontra solo raramente, come un'isoletta nel mare del banale tempo chr6nos. Ho visto come tutto ricomincia daccapo e, allo stesso tempo, tutto si ripete. È iniziato un nuovo desiderio di un mondo migliore, sono nati nuovi rapporti ed è nata una politica che aveva l' ambizione di essere una nuova politica. Allo stesso tempo si è ripetuto il vecchio desiderio platonico che a governare la società siano gli intellettuali e i filosofi, si è ripetuta la credenza che gli uomini saggi abbiano il diritto, e persino il dovere, di governare. Dopo due anni vedo come un altro tentativo di una politica supportata dalla saggezza naufraghi. Quelli che sono stati dai primi giorni il cervello della rivoluzione e che la gente ascoltava trattenendo il respiro, quando dicevano alla televisione e alla radio miracolose parole di verità, quelle stesse persone sono oggi oggetto di un oscuro odio. Certo, l' odio è ingiusto, altrimenti non sarebbe nemmeno odio, ma difficilmente ciò può essere una c'onsolazione. Rimane una persistente sensazione di fallimento. La Slovacchia ha, nella storia del movimento dell'Europa orientale, una posizione particolare. Con la sua cultura politica e la sua inclinazione a smussare gli angoli più aspri di una politica interna autoritaria è più vicina all'Ungheria e tanto più lontana dalla Boemia. Le mancano però i politici con la coscienza del proprio valore, che in Ungheria negli ultimi venti anni hanno disgregato il comunismo con l'eleganza di un aristocratico e, a dire il vero, le è mancato anche lo spazio, solidamente delimitato dalla spietata posizione del potere comunista praghese nei confronti di qualsiasi liberalizzazione delle strutture già esistenti. Si è creata una situazione particolare, atipica per gli altri paesi: se in Slovacchia continuava l'erosione del sistema totalitario, attraverso la sua umanizzazione ed il coinvolgimento, attraverso la legittimazione di tutti coloro che erano silenziosamente disposti a riconoscere la legittimità del potere, nella Repubblica ceca cresceva l'abisso tra il potere e i cittadini, ed il superamento di questo abisso era solo una questione di tempo, di quando ci sarebbero state forze sufficienti. Un esempio tipico è stato lo svolgimento delle prime dimostrazioni studentesche a metà novembre dell'89. Giovedì 16 novembre si radunarono nella piazza di Bratislava alcune centinaia di studenti in memoria del cinquantesimo anniversario della morte di Jan Opletala. La motivazione era la stessa del giorno dopo a Praga. La protesta contro la mancanza di libertà. Gli studenti per un po' stettero in piazza in un'atmosfera imbarazzata, poi si presero per mano ed insieme sfilarono per le vie. Si fermarono davanti all'edificio del Ministero della scuola e dalla strada chiesero libertà e alloggi migliori nelle case degli studenti. 11
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