Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

IL CONTESTO ben presto abbandonato per fare appello agli antenati; il salto ideologico fa del sistema di rappresentazione genealogica una verità fisica che finisce per essere quella della parentela.Una linea divisoria separa così i figli legittimi per origine, i cittadini europei, dai figli di stranieri o di genitori sospetti di non essere "originari"; l'ascendenza riporta alle origini. Questi figli illegittimi tutt'al più possono essere considerati dei bastardi. In Europa, l'indigenato è nobilitato poiché sottolineerebbe il "diritto del sangue", come se il sangue avesse a che vedere con il diritto, se non nella casistica dei giuristi, e più ancora come se il sangue avesse a che vedere con la procreazione. Ma la fede nell'origine "naturale" è la più forte, ecco perché domina il criterio dell'identità nazionale. Questa differenziazione che si pretende culturale nasconde discriminazioni di statuti e di diritti, nasconde la trasposizione dall'origine nazionale all'origine europea che fa pesare una minaccia di segregazione e di rigetto non solo sugli immigrati, ma su coloro che restano segnati da questa differenza, detta d'origine. Ed ecco che nella Comunità economica europea si profila una discriminazione tra gli Europei di razza, cioè i cittadini originari degli Stati membri, degni quindi di riconoscimento nazionale, e i cittadini europei che non appartengono alla CEE, i cittadini d'Oltremare, e cioè i cittadini francesi dei territori e dipartimenti d'Oltremare, i cittadini britannici del Commonwealth, gli olandesi euroasiatici o indonesiani, i bi-cittadini dell'espansione portoghese, spagnola, italiana, e al grado più basso i cittadini e gli altri emigranti d'Africa ed' Asia che la loro "differenza d'origine e di cultura" rende inassimilabili. L'Europa del sud (Spagna, Italia, Corsica) diventa una frontiera di controllo e di retrocessione degli emigranti del Terzo Mondo. Questa frontiera ideologica avrebbe per fondamento l'appartenenza originaria alla cultura europea, fatto che ·contrasta i processi effettivi di acculturazione e di meticciato. Su questa nuova frontiera, interna e simbolica, si intensifica l'etnicizzazione dei rapporti sociali. I conflitti etnici si localizzano in città, in quartieri e periferie, ma la linea divisoria non appartiene alla città, bensì a questa concezione dell'origine, al complesso di superiorità implicitamente o esplicitamente razzista che crea definizioni attraverso qualifiche etniche; arabi, musulmani, africani, colorati, neri ..., coloro a cui si nega la nazionalità, che sarebbe invece un fatto di eguaglianza, e non sono quindi cittadini, oppure sono falsi cittadini, dubbi o abusivi. In città si stabilisce e si rinnova la segregazione sociale che comporta ineguaglianza di accesso agli svaghi e alla "cultura"; nelle città proletarie e attraverso la proletarizzazione urbana vengono accantonate masse che non sono più marginali ma formano la maggioranza della società, quella propriamente diseredata, cioè priva di patrimonio. Non ci sono più classi pericolose, ma "etnie" pericolose, bande di giovani pericolosi a causa della loro diversità, rapportata ali' origine. L'identificazione etnica si sovrappone così alle differenze sociali; i conflitti sociali si traducono in conflitti etnici su una base di immigrazioni non più coloniali, ma post-coloniali, di diaspore che non solo sono messe in disparte da un nazionalismo razzista, ma additate per di più dal razzismo di colore. Lungi dal corrispondere ad una permanenza e ad una natura, l'identità è mutevole quando gli stereotipi razzisti si ripetono nella loro semplificazione. In Francia, stesse popolazioni sono state volta a volta chiamate kabile, arabe, nord-africane, e oggi musulmane. Identità che non sono che identificazioni inscritte in un campo ideologico da alterco, fissate, ma anche rivendicate, stigmatizzate e emblematiche. Esse discriminano, creando la prossimità alla precarietà e all'esclusione sociale. E, immerse nella stessa miseria economica e sociale, si affrontano le bande che, tirando in ballo l'etnia, pestano in nome del nazionalismo e della razza su coloro che esibiscono la loro diversità. Per tacciare di illegittimità coloro che, volontariamente o perché in esilio, si ponevano fuori di un'identità nazionale che sottolinea l'origine, il diciannovesimo secolo ha inventato il genere "meticcio culturale". Meticcio culturale per eccellenza fu considerato Marx. Otto Bauer fra gli altri ne ha tratto una teoria avvalorante il misto culturale, che rendeva manifesto il senso di emancipazione contro il quale si sollevavano sospetti ed accuse. Il meticcio culturale non è solo "il tipo senza patria", ma è anche fuori dalla comunità religiosa, impegnata a garantire la conservazione sociale; apolide o cosmopolita, ma in contrasto con l'identità della comunità che inscrive la famiglia nell'appartenenza ad una religione socialmente riconosciuta. Il misto ha un significato contro-culturale perché mette in discussione non solo il conformismo sociale, ma le gerarchie di potere, la sottomissione alle norme collettive stabilite sul modello della parentela e consacrate dalla legge di Dio. Non è meno scandaloso l'internazionalismo di fronte a nazionalismi che credono e sacrificano all'identità di un popolo unico ed eletto. Ma nel diciannovesimo secolo, questo ritratto di meticcio culturale non s'applica che a un'intellighenzia minoritaria e marginale che spesso accumula segni di minorità e marginalità: declassata, minoranza nazionale, ebrea, socialista rossa. Caratteri che si ritrovano oggi, ma a ben altro livello di massa, in certi "nuovi movimenti sociali" che praticano certamente il consolidamento dell'identità, ma si presentano anche come fronti di liberazione: movimenti di gente di colore, movimenti femministi. La collocazione e la composizione dell'intellighenzia sono totalmente cambiate, essendosi questa allargata, moltiplicata, massificata. La scolarizzazione si è generalizzata, ed ora si prolunga dall'adolescenza alla giovinezza, con un insegnamento professionale svalutato. Il maggio 1968 aveva fatto dello studente un modello per gli altri giovani, che si è imposto come un top/ modello, perfino alla moda. Ma lo studente appartiene ancora ad una intellighenzia elitaria; oggi le manifestazioni sono cose da liceali, e l' "hooliganismo" cosada adolescenti più omeno attardati, in rotta o in fallimento scolastico; si tratta soprattutto di un'espressione delle giovani generazioni che esprimono la violenza sociale nata dal depauperamento e dalla segregazione urbana. Ecco dunque i due termini della nuova problematica del pluralismo culturale: si tratta di una cultura urbana e di una cultura generazionale, e la cultura urbana corrisponde a un meticciato culturale di massa. Cultura delle città proletarie, della concentrazione e dell'espansione urbana, cultura mediale per corrispondenza e mimetismo di suoni, di ritmi e di clamori che si rispondono attraverso immagini "audiovisive" di grandi megalopoli, siano metropoli americane o su modello americano. L'acculturazione acquisita attraverso l'educazione familiare e di comunità, e convalidata dall'educazione propriamente nazionale, cede in parte il posto ad una acculturazione che si sviluppa nel gruppo di pari, e in una congiuntura che è insieme dell'adolescenza e della giovinezza; in questo senso la cultura è generazionale, sia per l'età sia perché inscritta direttamente nell'attualità. Ora, sono proprio le giovani generazioni "mescolate" ad esibire segni di identità per sottolineare una presa di distanza con la simbolica della maggioranza. Sono espressioni culturali mutevoli e creative, che si staccano dagli stereotipi nazionali; sono in rotta con il nazionalismo dominante e i particolarismi delle comunità tradizionali. La risposta attraverso la denuncia e la rissa, l'attacco fisico, si esercitano in nome del nazionalismo oltraggia-

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