Linea d'ombra - anno XI - n. 79 - febbraio 1993

STORIE/MILLHAUSIR Gli osservatori più attenti concordano nel riconoscere una figura-di-morte predominante, unafigura vestita di nero e senza volto che parrebbe - ma non è detto - seduta a un piano/ orte. Eppure l'euforia fu genuina: William era stato "sopraffatto" dalla Totentanz e aveva pregato l'amico di non lasciarla incompiuta. In quell'occasione fece uso di un argomento che ebbe fortissima presa su Moorash: non importa cosa provi verso l'opera a cui stai lavorando - aveva sostenuto Pinney - odio o amore non fa differenza: devi andare avanti come se essa fosse un destino, devi lavorarci come se tu fossi morto. 22. SONATA DELLA.MORTE (1844-1845) Olio su tela, 116,38 x 138,43 Elizabeth menziona per la prima volta la Sonata della Morte nell'aprile del 1844, anche se dall'annotazione non si capisce esattamente se Moorash avesse concretamente cominciato a dipingere o se alludesse a un soggetto possibile. Il quadro era certamente in avanzata lavorazione nell'ottobre del 1844, ma poi non se ne fa più cenno fino al giugno del 1845, quando pare che egli l'avesse ripreso per la terza o quarta volta, dopo un intervallo di parecchi mesi, e se ne parla per l'ultima volta in settembre. Benché il lavoro della Sonata della Morte sia alternato con quello della Totentanz (e con quello di altri dipinti), è evidente che la Totentanz era stata cominciata prima, ed era servita come motivo di ispirazione o come stimolo alla Sonata della Morte, che, però, a sua volta sembra aver influenzato l'opera che la precede. Anche se complesso, è innegabile il rapporto che sussiste fra le due opere dal punto di vista tecnico. Sono per altro i due unici dipinti sopravvissuti nei quali è impiegato il metodo della "spettralizzazione" della tela. Per certi aspetti la Sonata della Morte è opera più difficile e stimolante della Totentanz: Moorash porta alle estreme conseguenze la sua tendenza a esprimersi interamente con il nero. E in effetti, a tutta prima, si ha l'impressione di un nero uniforme, dato grossolamente in modo tale da non nascondere il lavoro di pennello. La prima impressione lascia quindi spazio a una seconda, più profonda: appena percepibili guadagnano visibilità nere forme che non si sa se si facciano avanti attraverso il colore, se siano impresse su di esso, o se siano dentro il nero. Si è tentati di parlare di "nero su nero", ma una simile descrizione sarebbe fuorviante: non c'è un vero e proprio fondo, quanto piuttosto uno spesso strato di colore scuro (nero, viola porporino, terra di Siena bruciato) che rivela via via quelle che potremmo chiamare "presenze". Le presenze sono però così elusive, così profondamente occultate dal colore che le rivela, che la loro natura muta a seconda di come le si guarda: non diversamente da quanto accade nella Totentanz, c'è la deliberata ricerca di un effetto misterioso che viene puntualmente ottenuto. Gli osservatori più attenti concordano nel riconoscere una figuradi-morte predominante, una figura vestita di nero e senza volto (Havemeyer ravvisa un "indizio di occhi") che parrebbe- ma non è detto - seduta a un pianoforte. C'è una finestra, aperta su nere distanze, e forse una luna nera: in questa stanza presunta altre quattro o più figure, fluttuanti e inconsistenti, indugiano fra visibile e invisibile. Quando non finisce per esasperare l'osservatore, la tela sortisce l'effetto di stregarlo, di trascinarlo nelle sue elusive profondità con la promessa di chissà quale oscura rivelazione. Il metodo è, per molti aspetti, più radicale e mistificante di quello adottato nella contemporanea Totentanz: se pare, di fatto, meno efficace, meno pienamente riuscito, non è solo in ragione della sua natura sperimentale o del suo non essere stato portato a compimento, ma piuttosto della nostra incapacità di seguire Moorash dentro l'enigma della sua arte - in altre parole della nostra incapacità di saperlo guardare davvero. Il fatto che Moorash abbia dedicato due dei suoi ultimi dipinti al tema della morte non dovrebbe indurci a pensare che egli fosse dominato dalla premonizione della sua fine prematura. Al di là dell'attrazione per il tema della Morte, ampiamente diffuso fra i pittori, i poeti e i compositori romantici, c'erano buone ragioni perché, fra il 1844 e il 1845, il pensiero della caducità occupasse la mente di Moorash. Era disperatamente innamorato di una donna che lo respingeva, e che gli doveva talora far sentire la morte come unica via d'uscita; aveva ormai raggiunto la mezza età (il suo trentacinquesimo compleanno cadeva il 16 luglio 1845), senza un briciolo di successo mondano e, al di là della sua aggressiva · ostentazione di sicurezza, doveva sentire il peso del fallimento. La sua vita emotiva era tutta compresa in una relazione amicale a quattro che per altro aveva cominciato a dare preoccupanti segni di tensione - non erano tutti buffoni della Morte, che danzavano allegramente sulla tomba? E inoltre si aggiunga il tormento delle preoccupazioni finanziarie, e il senso di colpa di dipendere economicamente dalla piccola rendita annuale della sorella. Ma soprattutto, egli fu, in questi anni, testimone del cedere di Elizabeth a una specie molto inquietante di malessere. Verso la fine del 1844 i saltuari mal di testa degli anni addietro erano esplosi in crisi paralizzanti di emicrania che duravano due o tre giorni di seguito, spesso accompagnate da conati di vomito. Contemporaneamente Elizabeth cominciò a segnalare - con annotazioni sempre concisissime - misteriosi "dolori" alle gambe, e periodici attacchi di "vertigini". Nel settembre del I°844 Moorash si recò con lei a Boston per consultare uno specialista in disturbi nervosi: le fu prescritta una dieta rigidissima che non recò sollievo alle sue emicranie ma che progressivamente la debilitò, a tal punto da esporla a una serie di infezioni bronchiali. Tornata alle sue consuetudini alimentari, sparirono subito infezioni e debolezza. Un secondo specialista, un amico di William Pinney che venne apposta da New York, prescrisse pillole a base di chinino, digitalis, e morfina. Le pillole ebbero il solo effetto di attutire il dolore e di lasciarla in uno stato letargico, con l'aggravante di indurla a un'inevitabile forma di dipendenza dagli effetti lenitivi della morfina. Moorash, che si sentiva vicino ad Elizabeth più che a ogni altro essere umano ed era completamente dipendente da lei, deve essersi certamente interrogato, nelle ore peggiori, sull'eventualità della morte della sorella immaginandosi l'esistenza senza vita che, dopo, gli sarebbe toccata in sorte. Anzi, è possibile che il continuo, inquieto passare da una tela ali' altra fosse un segno, in quegli anni, della paura che, una volta scomparsa Elizabeth, la pittura non avrebbe avuto più alcun senso per lui. 23. WILLIAM PTNNEY (1844-1846) Olio su tela, 87 x 75,43 cm Nello stesso periodo in cui lavorava alla Totentanz, al!a Sonat~ della Morte e ai dipinti perduti del 1844-1~46, Mooras~ s1 ~onvert1 al ritratto ma affrontò il genere in maniera straordmanamente originale. Anzi è forse fuorviante parlare di ritratti davanti a queste 47

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