Linea d'ombra - anno XI - n. 79 - febbraio 1993

CONFRONTI corrispondenza privata); sembra un libro morbido; ma non è un libro facile, per nulla. Ha un solido impianto teorico nascosto sotto l'esposizione piana. Per quanto mi riguarda, malgrado per tendenze onnivore condivise abbia molte letture in comune con l'autore, non controllo affatto tutta la materia. Infatti il libro è costruito per esposizione di principi e quadri generali, con pochi riferimenti empirici, sociali o storici, ma con riferimenti generali ad autori di notevole livello, spesso letti in modo molto caratterizzato (cioè presi per una cosa sola, quella che interessa lì), che vengono usati come puntini di colore in un quadro puntillista. Insomma, se si può usare una parola così pomposa per un libro che vuole essere così piano, questa è una metautopia, o una metateoria, costruita con un gran numero di tesi o di teorie che, almeno in qualche caso (Hirschmann, Habermas, per dirne due), possono ben essere chiamate classiche. Si rivolge al lettore non specialista, al cittadino interessato, ma ha più di una sfoglia. Può essere letto come il racconto di un sogno, appunto; ma è un sogno con un buono scheletro, ben solido, reale e concettuale. Se si sta al gioco, molte dimostrazioni di possibilità o di coerenza, che il racconto non include, possono essere trovate altrove. È un libro molto politeista, che oscilla tra più paradigmi o sistemi concettuali, come del resto fa il mondo reale, come facciamo tutti quando non vogliamo scrivere un saggio sistematico di teoria politica (se siamo capaci di farlo sistematico). Il tentativo è quello di descrivere un sistema in grado di apprendere, una società aperta che sa darsi fini e trovare risposte alle forze esterne che vorrebbero chiuderla o distruggerla, imparando dai fallimenti e dalle difficoltà, rinnovando le risorse materiali e mentali che usa. Perciò saivo il rapporto pedagogico tra persone, nella sfera privata, non ci sono principi e non ci sono pedagoghi in questa utopia: la virtù, che è una risorsa fondamentale in democrazia, non può né deve essere insegnata (oh, come è vero!). Il libro non è una apologia dell'esistente. È una apologia del regime democratico, non dell'esistente.Nell'esistente ci sono laMafia e tangentopoli. E, se ci si riferisce a tutta la società umana ("l'umana compagnia") come potenzialmente democratica, ci sono il massacro della piazza Tien An Men e la Somalia, la guerra in Bosnia e quelle nel Caucaso, il buco nell'ozono e lo smog. Il libro esprime la speranza e sostiene razionalmente la possibilità che da queste cose ci si possa liberare senza stragi, senza fare la guerra per porre fine a tutte le guerre. L'apologia è del modo democratico di liberarsi dal male, senza tagli are le teste e senza presumere di sapere troppo che cosa sia il bene, non del male. L'equivoco può nascere dal fatto che il percorso del libro mima il proprio contenuto, è un po' circolare, dalla premessa che espone le intenzioni alla conclusione che le ripercorre, attraverso la descrizione della forma sociale, delle dinamiche, dei beni, delle qualità dei limiti, ma senza una vera distinzione di ruoli e rigida connessione tra parti. Perciò chi faccia parte della congrega dei critici della società può trovarci un eccesso di acquiescenza, una mancanza di indignazione. Credo che le ultime dieci righe possano tranquillizzare gli altri lettori come hanno tranquillizzato me: uno che chiude un libro utopistico con La ginestra, quella di Giacomo Leopardi, (" ... congiunta esser pensando,/ siccome il vero, ed ordinata in pria/ l'umana compagnia,/ tutti tra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune") non è un lodatore del mondo, né pecca di eccessivo ottimismo. Che cosa mi sembra ben risolto. Siamo fuori in questo libro dall'insopportabile regno della onnipotenza del soggetto. Dalle crisi storiche, dalle svolte epocali, dalla incapacità di concepire la vita senza centro, come è, e il mondo come una sterminata periferia. È molto felice l'avere concentrato l'elemento utopico nel modo, nelle regole, nelle risorse del mutamento, piuttosto che in un modello da raggiungere. Qui il modello è il modo con cui il sistema democratico riesce ad imparare dagli errori e correggersi. In questo modo c'entriamo noi, i cittadini, e le nostre virtù, se ne abbiamo abbastanza. Altrimenti altri cittadini, fino a un certo punto, prenderanno il nostro posto, senza volercene troppo perché nel "dì fatato" avevamo il mal di cuore, o eravamo depressi, o innamorati, o semplicemente, per distrazione, non avevamo capito nulla ("dovrà dir sospirando/ io non c'era"). Il sistema democratico ha letto La linea d'ombra. 22 È molto felice l'avere escluso dall'utopia l'univocità, l'armonia, la quiete, la fine della storia. Non ci piace avere per fine ultimo un mondo fermo; meglio morti (tanto il tempo passa "e ci ammazza" in ogni caso) che fermi per sempre nella contemplazione beatifica del nostro ombelico.L'ambiguità, il pluralismo, le risorse che sono anche un danno (come il "terribile e forse non necessario diritto", la proprietà privata), sono qui per restare. Il fine da raggiungere non è liberarsi al più presto della contraddizione, se è una contraddizione vera, che contrappone classi e gruppi, non un imbroglio di parole o di alcuni pochi a danno di tutti. Gli interessi sono diversi, per qualcuno la stessa cosa è più risorsa e per qualcun altro è più danno. A meno di non fingere una conversione universale sulla via di Damasco, o tornare al taglio della testa di giacobina memoria, visti i precedenti, la strada è quella di porre limiti, di formulare regole, di delineare sfere di giustizia. In un ambiente culturale di tradizione socialista o comunista, come è quello della nostra sinistra, il mettere la proprietà privata tra le cose di cui non vogliamo liberarci neppure in sogno può sembrare un po' eccessivo. Ma penso invece che sia liberatorio: smettiamo di lasciare un angolo della testa in cui pensiamo che alla fin fine il mondo materiale (cioè quello economico: con la forza dell'economia in pugno cosa mai ci potrà resistere? Non l'inerte natura ...), e quindi tutto, dovrà obbedire alla volontà dei filosofi al potere e pensiamo invece seriamente a porre limiti, a delineare una sfera entro cui il terribile diritto venga contenuto. Mi sembra anche abbastanza ben risolto il posto che i diritti e le virtù hanno nell'utopia: cioè che ne sono la premessa. Senza diritti, senza cittadini, uomini intrinsecamente dotati di diritti, non per natura ma per socializzazione di tutti, o almeno dei più, il sogno del buon governo non può neppure affacciarsi all'orizzonte della mente. E se i cittadini non riescono a produrre le virtù civiche, il sogno finisce in un angoscioso risveglio. E così mi sembra ben risolto, diciamo, di passata, il problema del contrasto integrazione/assimilazione, della inconciliabilità tra le culture, in quanto l'estremo politeismo consente, nella uguaglianza di fondo, di assorbire anche le differenze culturali maggiori. E che cosa no. Non mi sembra felice la metafora organica, la democrazia personificata che, come Gaia, diventa il soggetto di tutto edi cui tutti siamo parte. È vero che l'autore lo sa e ci avverte che "Queste immagini di tipo biologico, che hanno lo scopo di far vedere il regime come un organismo complesso e unico e di allontanarci dalla visione meccanicistica che ha prevalso nelle scienze sociali, non devono essere stirate fino al punto da credere che si possa contare sulle pulsazioni, come fosse un processo attendibile o addirittura prevedibile" (p. 81). Ma il rischio resta lo stesso. Ho una grande diffidenza per l'anima della formica bianca, per l'anima della terra, del mondo, per l'anima in generale. Anche se so benissimo che l'autore non corre il rischio di farsi prendere la mano dall'apologo biologico, un qualche rischio secondo me è implicito nella scelta. Una metafora deve fornire concetti fertili: in questo caso la tentazione di sentirci tutti ben protetti nella placenta della democrazia (che sia un sogno o un incubo qui non importa) è troppo forte perché è contenuto nelle parole stesse. Non mi sembra pericoloso che sia il logos a parlare per conto degli uomini, quanto che non sia chiaro che il logos, o il sistema, o la forma, può fare radicalmente a meno degli uomini tutti, e che l'attività consapevole (le idee generali, perdi ria con Tocqueville) è un elemento intrinseco della sopravvivenza della democrazia. Le idee generai i non sono la stessa cosa delle virtù e non so bene se vadano considerate una risorsa o una caratteristica del sistema democratico come sistema. Il fatto è che neppure come sogno viene spiegato quale caratteristica del sistema democratico possa renderlo omeostatico, autocorrettivo. Forse lo si può fare più in singoli settori. Un libro recente di Gustavo Zagrebel~ki, Il diritto mite, è un esempio di come in campo giuridico si possa ipotizzare una regolazione pluralistica. Forse qualcosa di analogo si può fare anche in altre sfere. Un secondo elemento irrisolto è che questo è un sogno americano ed europeo, un sogno che può essere sognato da qualche decennio nei paesi industrializzati. L"'umana compagnia" include tutti, ma gli autori usati per disegnare il quadro non includono tutte le culture dominanti. Non basta la citazione di autori come Naipaul o Geertz per includere nel

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