I CONFRONTI I l'autocoscienza di Sisifo. l'etica secondo Paolo Flores Filippo La Porta Le posizioni che Paolo Flores esprime in Etica senza fede (Einaudi pp. 239, L. 20.000), sulla guerra del Golfo (incondizionatamente, favorevole all'intervento in nome del diritto di ingerenza), sui vizi del pacifismo (mosso soprattutto, e strumentalmente, da odio per l'Occidente), contro il progetto di società multietnica (che tutela la "differenza" della comunità ma non dell'individuo), e anche sulle simpatie della sinistra per il "maoismo cattolico", ipocriticamente terzomondista, di Wojtyla, possono irritare e perfino scandalizzare molti lettori di questa rivista. E non è solo questione di contenuti. Siamo circondati da discorsi di laici che difendono, con piglio risentito e accorato da "opposizione", ciò che è già di per sé largamente vincente (in questo caso, ad es. l'intervento armato contro l'Iraq). Credo però che il merito del libro di Flores sia quello di unire una vibrante difesa della cultura laica (del più "impresentabile" ateismo) ali' invito a non rassegnarsi mai ali' esistente, una inesausta verve argomentativa al fermo impegno a essere "individui". E così le molte pagine dedicate a una scrupolosa analisi filologica di encicliche e sillabi sono animate da una pietas "laicamente" disinteressata verso gli ultimi e i deboli (senza cioè la smania di conquistarli alla buona causa). Poiché questo agile libretto presenta una spericolata densità tematica, vorrei soffermarmi velocemente sulla parte più pamphletistica, di polemica politica contingente, per fare invece qualche considerazione più meditata sul capitolo che a me sembra decisivo poiché contiene i presupposti filosofici di tutto il resto: quello sul "peccato della finitezza". Dunque. Quando si impegna nel sapiente smontaggio di alcuni dei più vistosi inganni ideologici del nostro tempo Flores ha pagine molto incisive: sulla inaccettabilità dell'obiezione di coscienza dei medici cattolici antiabortisti (dato che la professione di medico comporta dei doveri, cui corrispondono precisi diritti dell'utente), sulla retorica del multiculturalismo, che intende rispettare la comunità prima dell' individuo (il che significa privilegiare, nella comunità la parte "forte": l'autorità religiosa, il maschio, il libro, il passato), sul sorprendente filisteismo dell'eretico Hans Kiing a proposito di Rushdie, sul conformismo di CL, sulla genesi del dissenso nell'Est, ecc. Mi sembra anche molto convincente la "strategia del dissenso" tratteggiata in queste pagine: sovranamente noncurante di partiti (e altri soggetti collettivi) e poggiante sull'agire "concreto" e "senza calcolo" dell'individuo.Un ragionamento politico serrato, coerente, non troppo preoccupato dell'efficacia immediata, e che non assume come interlocutori D' Alema o Martelli. Mentre la contrapposizione, cara ali' autore, tra Occidente reale e Occidente dei valori, tra Occidente minoritario e Occidente degli establishment, mi sembra tradire paradossalmente un limite di astrattezza "giacobina", e insieme un eccesso di fiducia nella politica, residuo forse di un passato gauchista, benché eretico (d'altra parte il tentativo di introdurre un po' di giustizia in questo mondo privo di senso, non può rappresentare, per quanto nobile, l'unico scopo concepibile e immaginabile di una vita degna!). Di Occidente infatti, mi si perdoni l'ovvietà, ce n'è uno solo, prodigiosamente ambiguo; e risulta assai arduo distinguere il grano (le idee) dal loglio (i fatti). Anzi un grande intellettuale laico come Nicola Chiaromonte volle definire "sacro" (cioè invalicabile) il limite che separa il mondo delle idee da quello dei fatti, pena la ricaduta in qualche autoritarismo illuminato (poiché solo ciò che cresce secondo il proprio ritmo, e non viene cioè forzato dall'esterno, "è vero e vale"). D'altra parte se la barbarie è potuta fiorire in Europa, nella culla dell'umanesimo e del razionalismo, e se come ha scritto Steiner "il grido della gente assassinata era udibile dalle università", forse quegli stessi valori contengono un cuore avvelenato, un vizio congenito di astrattezza. Le pagine sul "peccato della finitezza" servono, come ho accennato, a fondare un po' tutto il discorso, e in un certo senso contraddicono (fortunatamente) l'ascetico assunto wittgensteiniano qui rievocato: per il motivo che si parla molto su ciò di cui si dovrebbe tacere (le questioni 20 ultime e penultime, il cosmo e le origini della vita). Ma come ne parla Flores? Sulla scorta della autorità epistemologica di scienziati del calibro di Monod e Jacob (e con un felice montaggio di citazioni) l'autore ci ricorda che l'uomo è superfluo, improbabile, frutto effimero del caso e della necessità, gettato in un universo privo di finalità e di senso (l'unico senso possiamo darglielo noi). Ora, anche ammesso che quella scientifica è una forma di conoscenza superiore a tutte le altre (ma l'umanità sapeva da tempo di essere fatta della stessa materia dei sogni ...) bisognerebbe però almeno accennare alla discussione tutt'ora in corso tra gli scienziati stessi (per un biologo materialista c'è sempre un fisico spiritualista, o viceversa): rispetto alla controversia che oppose Einstein alla meccanica quantistica, e proprio su temi quali la provvidenza, il caso, la razionalità dell'universo ecc. mi piacerebbe sapere come si pongono oggi gli stessi termini della questione. Ma, entrando nel merito: ci si chiede qui non solo di accettare realisticamente la finitezza, la mortalità, ma anche di appassionarsi ad essa. Ora, da un certo punto di vista la finitezza può essere l'unico vero oggetto della nostra passione dato che è qualcosa di reale, di non immaginario. Eppure accanto alla passione per la finitezza Flores ci ricorda opportunamente l'orrore della finitezza: la sua è dunque una figura paradossale, enigmatica, un impenetrabile ossimoro non troppo distante da certe formule religiose. Questa nostra passione, per quanto sincera, sarà dunque sempre velata, malinconica (o anche drammatica). L'autore invita spesso alla "sobrietà", preoccupato com'è di alimentare mitologie fanatiche: ma quell'amore per il relativo, se deve sostenersi soprattutto su un senso virile dell'assurdo, sull'orgogliosa e lucida autocoscienza di un Sisifo felice, non implica allora un'etica dai tratti eroici o signorili (o addirittura superomistici)? Nel senso cioè che la "felicità" che nasce dall'autocoscienza e dalla sfida al proprio destino assurdo non è un "diritto", non è qualcosa di garantito, né ha a che fare con la democrazia: diciamo che può schiudersi all'interno di una esperienza "qualitativa", comunque non riproducibile sperimentalmente. Inoltre Flores, benché parli di scommessa, "chiude" troppo presto e con troppa sicurezza la parte del mistero.L'immagine stessa di Sisifo felice, tolta dall'abbagliante contesto "retorico" in cui l'ha immessa Camus, non può impunemente trasformarsi in slogan, o prescrizione, o in qualcosa di fortemente assertivo. Lo scrittore francese ha un sentimento così vertiginoso e panico dell'assurdo da non poter essere costretto entro schemi troppo rigidi. E tale sentimento si riflette coerentemente nel suo linguaggio poetico, luminosamente evocativo, capace di una serrata argomentazione logica e insieme di straordinaria intensità lirica. È vero che in un certo senso non possiamo appassionarci che alla finitezza, a ciò che è ed è stato: Simone Weil osservava contro ogni utopismo e millenarismo che è davvero puro solo l'amore di ciò che è (senza aspettative o calcolo), e non di ciò che sarà o potrebbe essere. Buona parte della filosofia del Novecento ritiene che si amano le persone e le cose proprio perché sono finite, cioè precarie, fragili, vulnerabili. Però bisognerebbe sempre aggiungere che le amiamo sia perché sono precarie e sia benché siano precarie. Potrebbe infatti accaderci, per sventura, di amare la finitezza al punto tale che vogliamo che duri per sempre. Quella che mi sembra una debolezza "antropologica" dell'ateismo consiste nel non vedere ciò che è perfettamente chiaro a tutte le grandi tradizioni religiose: e cioè che, avvitata dentro la natura umana, si ritrova come una richiesta irragionevole, una "follia", un bisogno indocile, non negoziabile di assoluto, un desiderio che racchiude l'infinito: "Proviamo a immaginare che tutti i nostri desideri vengano esauditi: dopo un po' di tempo saremmo di nuovo insoddisfatti" (S. Weil). E, sempre la Weil, raccomandava di lasciare in sospeso quel desiderio, di non soddisfarlo con idoli e surrogati, di non riempire a tutti i costi il vuoto. La pensatrice francese, che pure non evita certo integralismo (per esempio quando auspica che l'educazione religiosa permei ogni istituzione pubblica) sapeva bene che la fede j.n Dio non si può prescrivere né imporre: ma si può legittimamente richiedere di non amare come Dio delle entità terrene, "di non accordare il nostro amore a false divinità". L'individuo è il vero protagonista di queste pagine, l'individuo irripetibile con la sua esistenza concreta, geloso della propria identità, autonoma e responsabile, e contrario a identità-rifugio, a identità altre che pretendano di liberare dal male del finito. Eppure l'individuo non può essere l'inizio e la fine di tutto, l'alfa è l'omega di ogni senso possibile
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