IL CONTESTO Il problema mafia Incontro con Diego GambeHa a cura di Federico Varese Nella prima scena di Minbo no Onna (Una donna contro il racket delle estorsioni) di Juzo Itami, presentato quest'anno alla Mostra del Cinema di Venezia e mai uscito in Italia, la telecamera si sofferma a lungo su un mafioso che sfoggia uno splendido Leone tra le Peonie tatuato sulla schiena. Nel film - la storia di una coraggiosa donna avvocato che sventa il tentativo della yakuza di ricattare il direttore di un hotel -, i corpi dei mafiosi sono quasi interamente coperti da tatuaggi. Grazie all'ultimo libro di Diego Gambetta, La mafia siciliana (Einaudi, 1992) è possibile andare oltre la spiegazione fornita da ltami di questa curiosa tradizione: i tatuaggi servono non (solo) a "dimostrare lo stoicismo di chi li possiede, la capacità di sopportare il dolore della loro esecuzione", ma a distinguere i fornitori autentici di protezione mafiosa dagli impostori. Come i produttori di vino aggiungono ai loro prodotti il marchio D.O.C., quelli di lana il marchio Lana Vergine, così la mafia giapponese ha scelto di affiancare al rito di iniziazione un ulteriore segnale per informare sullo status dell'interlocutore: i tatuaggi. Un impostore ben difficilmente sceglierebbe di farsi tatuare il corpo alla maniera dei mafiosi, poiché non potrebbe più occultare la sua impostura. Uno dei contributi più significativi allo studio della mafia contenuto nel volume di Gambetta è l'analisi dei simboli della mafia e, a monte, la concettualizzazione della mafia come industria. Gambetta mostra come le varie famiglie mafiose condividano un'identità commerciale, un'identità di fornitori di protezione di "qualità" e siano assillate dal problema di farsi riconoscere dai clienti come i fornitori "autentici". Inoltre, argomenta Gambetta, l'industria della mafia è strettamente legata alle risorse localile reti di spionaggio, la reputazione dei mafiosi - ed è quindi molto difficile da esportare, al pari dell'industria mineraria. Gambetta, oggi professore di sociologia ad Oxford, ha insegnato per molti anni al King's College di Cambridge e si è occupato di Sociologia dell'educazioné (trad. it. Il Mulino, 1990) e del Concetto di fiducia (trad. it. Einaudi, 1989), prima di approdare al tema, scottante e delicato, della mafia. Quali furono le motivazioni che ti spinsero a scrivere questo libro che a qualcuno è sembrato freddo, poco passionale? Il libro è nato da un massimo di coinvolgimento e da un massimo di distacco. È chiaro che la mafia è uno dei problemi più seri, complessi e gravi dell'Italia. All'inizio degli anni Ottanta, con la morte di Chinnici e di Dalla Chiesa, rimasi molto choccato. Sentii però di dover andare oltre l'indignazione personale e di affrontare una sfida professionale, intellettuale, per capire di cosa si trattasse. Ebbi così una motivazione civile ed una curiosità intellettuale. lo, che sono nato a Torino e vivo da molti anni in Inghilterra, ritenni di poter raccogliere la sfida a capire queste cose con il minimo di pregiudizio; e per capire non ci si può far guidare dal pregiudizio. Infatti, quando si tratta di capire, devi capire la logica dei cattivi, esattamente come faceva Falcone, che rispettava l'avversario e lo affrontava in modo "laico", come ebbe a dire. Mi spinse dunque una doppia motivazione: da una parte lo spirito dell'antropologo, che va in una terra lontana che non conosce, e dall'altra la motivazione civile che probabilmente mi sarebbe mancata se avessi studiato gli eschimesi (e lo stesso vale - suppongo - per gli eschimesi che vengono a studiare noi). Il tuo libro contiene molte affermazioni controcorrente. Ad esempio, neghi che la mafia stia dilagando al Nord e varcando i confini d'Italia. Sostieni invece che si è diffusa ben poco, è nata in 12 luogo ben preciso della Sicilia e fondamentalmente vi è rimasta. Effettivamente sembra un'affermazione difficile da credere, però vi è un generale accordo tra i pentiti sul fatto che le famiglie che formano l'industria della mafia sono tutte in Sicilia. Non c'è nessuna famiglia (lasciamo da parte il caso americano per il momento) fuori dall'isola. Non solo: queste famiglie sono presenti solo in certe zone della Sicilia, per lo più nella parte occidentale, fino a Catania. La mafia non è stata esportata nel senso che non si sono formate delle famiglie mafiose indipendenti in nessun'altra parte d'Europa ed 'Italia, eccetto che nella Sicilia occidentale, dove sono nate. Sostenere il contrario equivale ad affermare che la Fiat è basata in India poiché vende automobili in India. La Fiat è basata per lo più a Torino, anche se vende il suo prodotto in altre parti del mondo. Come tale, l'industria della protezione non è così facilmente esportabile. Per certi versi è simile all'industria mineraria, la quale è indissolubilmente legata al suolo su cui si trova. È molto difficile riprodurre in contesti diversi le condizioni che permettono a questa industria di nascere e prosperare. Trasferire un'industria di software da una città ad un'altra è tutto sommato poco costoso. L'industria della protezione, invece, la quale dipende moltissimo dalla reputazione degli industriali e dalla raccolta di informazioni che permettono la produzione efficiente di protezione, è molto legata alle risorse locali. Se qualcuno deve costruire una rete di spionaggio, o una reputazione ex novo in un luogo che non è propizio, l'investimento è estremamente costoso e le probabilità di successo remote. Eppure bisogna spiegare come sia nata la mafia in America. Senza dubbio. Si potrebbe addurre il caso degli Stati Uniti come contro-esempio e sarebbe un errore. Infatti, la mafia non è stata esportata negli Stati Uniti. Vi è nata quando si sono verificate due condizioni particolari che ne hanno permesso il decollo, il quale è - come ho già detto - molto problematico. La prima condizione fu la concomitanza della depressione e del proibizionismo. Questi eventi generarono un'altissima domanda di protezione. La seconda fu la presenza di un numero sufficiente di emigrati che avessero una qualche idea del mestiere di protettori, i quali però erano migrati in America non con lo scopo preciso di esportarvi la mafia. Nel momento in cui si aprì un mercato della protezione, quando in altre parole vi fu una domanda di protezione mafiosa tale da indurre questi immigrati a farsi imprenditori, la mafia riapparve. Perché la depressione americana favorì la mafia? La depressione va messa in rapporto all'alto numero di fallimenti: moltissime imprese fallivano e i mafiosi erano in grado di agire come banchieri su reti fiduciarie, prestando denaro a tassi agevolati. Durante i periodi recessivi, le imprese hanno maggiore bisogno di denaro a basso costo e allo stesso tempo il costo del denaro tende a essere più alto. Quindi si sentono strozzate e si rivolgono a questi banchieri. Conoscono bene però i pericoli nei quali incorrerebbero in caso di mancato pagamento. Fin qui però sembrano casi di strozzinaggio con sanzione, non di mafia. ·
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