Linea d'ombra - anno XI - n. 79 - febbraio 1993

IL CONTESTO nonviolenza e in grado di aggregare e portare ad espressione politica il desiderio di pace e fratellanza che ancora esiste in vasti strati di popolazione; i gruppi fautori di una lotta nonviolenta sono estremamente esigui, e almeno un gruppo sedicente pacifista, come quello che fa capo al Centro per la pace di Sarajevo, chiede espressamente un intervento militare dal di fuori. Ma, d'altra parte, anche un attivo intervento militare dal di fuori è estremamente problematico: chi si manda a uccidere chie a farsi uccidere? Soldati di eserciti regolari di altri Paesi, e solo se sono disposti ad andarci come volontari? Caschi blu? O mandiamo in primo luogo quelli che più gridano - per esempio sui giornali-in favore di un intervento armato? O diamo, ancora una volta, carta bianca al gendarme del mondo, agli Usa? E che tipo di azioni militari si fanno? Si bombardano le postazioni dell'artiglieria serba o si bombardano anche le retrovie, le fabbriche e depositi di armi ubicati in centri abitati? Come si interviene militarmente contro le bande militari dell'ultranazionalismo serbo che operano in territori in cui coabitano varie minoranze? Come si organizza, nel lungo periodo, una lotta militare contro i movimenti di minoranze ultranazionaliste che non vorranno deporre le armi ma continueranno a condurre una guerra di guerriglia? E non vi è un grosso rischio, come ha messo in guardia un alto ufficiale dei caschi blu, che un intervento armato dal di fuori conduca ad un'ulteriore escalation della violenza, portando ad un allargamento della guerra al Kosovo? Sono interrogativi angoscianti. Nel momento in cui scrivo nessuno sa come andranno a finire le trattative di Ginevra sulla partizione della Bosnia in una serie di aree a grande autonomia. Qui, forse, c'è uno spiraglio di luce. Ma rimane comunque il fatto che la militarizzazione del conflitto ha creato problemi molto maggiori di quelli che inizialmente hanno portato al conflitto. Ci vorranno decine e decine di anni, ed Foto di Jeon·PoulBojord (G Neri) a una profonda politica di distensione e di educazione delle nuove generazioni, per sanare le lacerazioni, placare gli odi ed il desiderio di vendetta che la violenza ha creato ed acuito. Inoltre, è anche essenziale che l'Europa cambi in modo diverso da quello in cui sta cambiando. Non si può certo dire che gli Stati dell'Europa occidentale abbiano offerto alle varie etnie jugoslave, tese a garantire certi propri interessi attraverso la costituzione di stati indipendenti, un modello positivo di riferimento. Gli Stati Europei sono tutti stati nazionali, forniti di eserciti e di armi micidiali, da sempre fautori di una logica di potenza fondata sulla violenza e la minaccia di essa, che tendono ad emarginare sempre di più quelli che sono economicamente più deboli, che praticano forme molto avanzate ed economicamente sofisticate di neocolonialismo e si chiudono sempre di più nei confronti degli extraeuropei e delle popolazioni del Sud più povero e meno sviluppato. La stessa Comunità europea marcia in direzione di un sistema sempre più militarizzato, disposto a difendere i propri grandi privilegi con le armi più sofisticate. La recente formazione del primo contingente della brigata franco-tedesca di 40 mila uomini, formalmente sancita dall'accordo firmato da Mitterand e Kohl venerdì 22 maggio 1992, è il primo nocciolo del costituendo futuro esercito unificato della Comunità europea, in cui l'arsenale termonucleare francese, e magari anche quello inglese, e il capitale e l'industria tedesca, sono destinati ad essere i grandi pilastri. Secondo le direttive contenute nel trattato, un importante compito della brigata è quello di partecipare ad operazioni al di fuori dell'area Nato per stabilire e mantenere la pace, come ad esempio in casi simili a quello della guerra del Golfo o, appunto, a quello del conflitto jugoslavo. Non vi sono molti dubbi che la pace di cui qui si parla è una Pax europeo occidentale-americana. È importante che nasca un'altra Europa. Non l'Europa degli stati delle multinazionali e del militarismo, nella quale la democrazia diventa sempre più dimidiata e formale, ma un'Europa dei popoli e delle regioni autonome, un Europa veramente democratica, fondata sui principi di uguaglianza, tolleranza e solidarietà, che riconosca a tutte le minoranze, etniche, linguistiche, religiose, culturali, pari diritti di piena cittadinanza, a condizione che ciascuna minoranza rispetti gli stessi diritti per gli altri. Un'Europa molto più sensibile alle istanze di giustizia planetaria che vengono dai popoli più poveri dei paesi del Sud. Un'Europa che ha abbandonato il concetto tradizionale di sicurezza basato sulla detenzione di un sempre maggiore apparato militare e sulla minaccia di una violenza sempre più massiccia - e che invece fa proprio un concetto più lato, e oggi anche più adeguato, di sicurezza basato su vaste forme di aiuto e di collaborazione nei confronti dei paesi del Sud. Soltanto se l'Europa va in questa direzione sarà possibile risanare le grandi e profonde lacerazioni create dalla militarizzazione del conflitto jugoslavo e trovare ad esso, in prosieguo di tempo, una soluzione stabile, una soluzione che non porti a nuove guerre o nuovi conflitti violenti dentro e tra i nuovi stati che si sono venuti creando.

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