FEBBRAIO1993- NUMERO79 LIRE9.000 mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo DAENINCK
VIADElAl' NNUNCIAT3A1- 20121MllANO-TEL29000071 CARlOCIONI Marzo - Aprile 1993 - Catalogo in galleria Precedenti Mostre a cura di Achille Bonito Oliva: Alvarez Basso - Caropreso - Cattani - Sorra LATTUADA STUDIO ElENA PONTIGGIA PRESENTA:
F R E E L ® I F E lA NATURA DnlA I i I I ' I ' \ \%-:- •~,,;;, (;::-~--- '"';"~\: --·i:~ ·~t- " \~:- ,-ml Q CARTIERFEEDRIGONI & C. S.p.A. 37135 Verona - Italia - Viale Piave, 3 Tel. (045) 80.87.888 Fax Italia 045-8009015 \,::.-...,,,..r , \;,_ -:.:\ -- : y,-,.,.,..,,.\: . 1?r:-;- "'-;:.":t~- " -;-~«:;\ I.I -.1:';..- -:.~';$ h ':.,.. ""i:~\t Chicomunicsuacartariciclactaomuni duevolteE. oggipuòsceglieFrereelif la nuovacartaecologicraiciclatadi FedrigonEic, ologipcearnascitah,i-tec perprestazionFir,eelife è laprimacart che rispettal'ambiente rispettala stampag,razieallaelevatqaualitàdell fibrechelacompongo(n8o0%di fibr riciclastecondarie 11 preconsumer 11 quind pulite1, 5%cellulos5a,%purocotone 3color4i,finitur6eg, rammatuprer,una sceltachenonconoscceomprome NaturalmenFtereelife è "AcidFree"e "ChloriFneree"p,eresserecologifciano ~ fEDRIGQNI infondoeperdarelu vitaallacartaI.mmaginset,ampabil gammap:erFreelisfeonodonidinatura
friendly è i modi di fare civili, gli ambienti piacevoli i rapporti non arroganti, non ostili, non burocratici il rispetto, l'attenzione personale c'è chi si ingegna a trovare soluzioni a far funzionare le cose più importanti a migliorare la qualita della vita tracce,immagini, indizi dell'anno che è passato ne abbiamo raccolti tanti da farne un libro FRIENDL~- AlMANACCO DELLASOCIETÀITALIANA progettodi LauraBcilbo in questo numero ABITAREA,SPETTARCEO, NSUMATOREI UTENTI, NATURAS, ENTIRSIICURIS, POSTARSI, STARBENTEE, MPOPERSÉ,VIVERE-CON ANABASI
Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, LINAI DI OMBRA. Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, · Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia anno XI febbraio 1993 numero 79 Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Rocco Carbone, Caterina Carpinato, Bruno Cartosio, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Madema, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Restelli, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Marco Capietti, Alessandro Filippini, Barbara Galla, Lieselotte Longato, Marco Antonio Sannella, Barbara Veduci, la libreria Milano Libri di Milano, l'archivio de "L'Unità", la Televisione della Svizzera Italiana, le case editrici e/o, Giunti e Peggy Boyers, Il Leuto libreria dello spettacolo di Roma, le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 20l24 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Tel. 02/48403085 LINEA D'OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 79 - Lire 9.000 IL CONTESTO 4 Giulio Marcon 5 Giuliano Pontara 9 Stefano Levi Della Torre 12 Diego Gambetta 16 Piergiorgio Giacchè 18 Oreste Pivetta CONFRONTI 20 Filippo La Porta 21 Francesco Ciafaloni 23 Ferdinando Taviani 24 Gianni Canova 25 Francesco Sisci 26 Paola Splendore 27 Daniela Daniele Noi e la guerra nella ex Jugoslavia La via bloccata della violenza Xenofobia e antisemitismo Il problema mafia a cura di Federico Varese O loro o "Noi" Pietro Maso e la "normalità" Sisifo, l'etica secondo Paolo Flores Il buon Leviatano. Sul libro di Carlo Donolo Pirandelliana Yuppies a Puerto Escondido La Cina di Qiu Ju "La donna guerriera" tra Cina e Usa Le donne nere di Zora N. Hurtson POESIA_____ ~-----~~-___,,..._..----- 66 Khalìl S. Hawi Il marinaio e il derviscio a cura di Pino Blasone STORIE -~-------------------------------' 30 Steven Millhauser 72 Sélim Nassib INCONTRI 54 61 68 74 MartinAmis ]osé Saramago Yahya Haqqi Didier Daenincks Catalogo della mostra: L'arte di Edmund Moorash Primo amore La corruzione dei valori a cura di Christopher Bigsby I Vangeli riscritti da un ateo a cura di Valeria Tocco e Arlindo ]osé Castanho La gente nell'ombra a cura di Luisa Ore/li Gialli di rabbia a cura di Fabio Gambaro La copertina di questo numero è di José Mufioz. Linea d'ombra è stampata su carta ecologica Freelife Vellum white - Fedrigoni Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000 a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi.
IL CONTESTO Le strade della violenza Il confliffo n•lla ex Jugoslavia Noi e questa guerra Giulio Marcon 1. Il movimento per la pace degli anni Ottanta si era fatto i calli ai piedi con le marce ed i cortei. Era il tempo della guerra fredda, degli euromissili, del pericolo atomico. Il movimento per la pace degli anni Novanta ha ormai i calli alle mani con la diffusa e capillare solidarietà che ha costruito in quest'ultimo anno con le vittime del conflitto nella ex Jugoslavia. "La solidarietà è una via della nonviolenza", diceva qualcuno prima di noi. Solidarietà come convivenza, diritti umani, condivisione. È una nuova cultura, una diversa identità che si va radicando nel movimento pacifista di questi anni. Pacifisti che vanno nei campi profughi a fare volontariato con i bambini, che raccolgono medicine e dopo rocamboleschi viaggi li portano agli ospedali della Bosnia. Che vanno a Sarajevo, facendo quello che l'Onu non riesce a fare: portano aiuti, un messaggio di speranza, rompono l'isolamento. Sono tante storie, impossibile raccontarle tutte. Come quelle di Alberto Salvato, un pacifista di Treviso che 10 anni fa stava davanti ai cancelli di Comiso contro i Cruise, e che in queste settimane ha raccolto 107 milioni di solidarietà e li ha portati al "Villaggio del bambino" di Novi Sad dove convivono bambini serbi, croati, musulmani. 4 GONTHERANDERS 1909- 1992 2. È un pezzo di quella Italia generosa, civile che crede nei valori della pace e della solidarietà. Quell'Italia delle minoranze che sono sopravvissute al conformismo degli anni Ottanta-e al narcisismo degli anni Novanta. Un'Italia nascosta, quella del volontariato, del lavoro sociale di base, dell'impegno civile, come si diceva una volta. Di fronte alla guerra nella ex Jugoslavia il movimento per la pace sta sedimentando nuove culture e valori. Sta crescendo una nuova generazione di pacifisti. Andando - durante la settimana di Capodanno - nella ex Jugoslavia (eravamo più di 1000, con l'iniziativa Time for peace, in un centinaio di località a fare volontariato, a portare aiuti, a sostenere le forze di pace e di dialogo) abbiamo incontrato gli esponenti di questa nuova generazione: studenti, boy scout, preti, sindacalisti, volontari. Di cui pochi parlano. Di cui pochi sanno. Sarebbe l'ora di un libro bianco di tutte le attività che sono state promosse in questi mesi. E di farlo avere ai gazzettieri che si ricordano dei pacifisti solo per dargli addosso. Ma nella società dello spettacolo e dei fatti vostri questo non fa notizia, o meglio non è notizia. E questo vale anche per la solidarietà, di cui si conosce quella pelosa dei fustini Dash e dei Cruciverboni, e non quella degli Stregoni normali (perusare un'espressione di Benni nel suo ultimo libro) che si sporcano le mani con la quotidiana sofferenza. Della solidarietà del cuore banalizzata e spettacolarizzata, ma non di quella in cui dono non è solo rinunciare al superfluo di sé, ma condividere, rimettere in gioco i propri privilegi. 3. La guerra nella ex Jugoslavia ha modificato culture, pratiche, certezze del vecchio movimento pacifista. È la prima grande guerra del dopo '89. Evidenzia le future minacce e le tensioni violente degli anni Novanta. E non solo nell'Est. Una guerra che può essere letta in tanti modi. In cui vediamo le radici dei conflitti che stanno esplodendo anche da noi: xenofobia, razzismo, nazionalismo. La fine dei valori della convivenza e della solidarietà. Ci sono ragioni storiche, certo: il groviglio secolare dei Balcani, la gragnuola di conflitti etnici nell'Est, il totalitarismo comunista che ha sepolto la democrazia ed i diritti per tanti anni. Ma non è affare solo della ex Jugoslavia e dell'Est. È affare dell'Europa e del rapporto Nord-Sud. Un'Europa forte e dei mercati che si rinchiude in una fortezza e che lascia fuori tutto il resto non può che esasperare i particolarismi, i conflitti etnici, i nazionalismi. Un Nord che accresce la propria ricchezza ed il divario con il Sud del mondo accende la miccia di una bomba a tempo fatta da due elementi: la povertà e l'ingiustizia. Ecco perché non basta più un movimento per la pace, per il disarmo e contro la guerra. È necessario. Ma senza una costruzione di valori, culture ed esperienze sociali è condannato ad essere residuale. Per costruire il tabù della guerra (come proponeva Moravia) è necessario che i primi passi il movimento per la pace li faccia nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Morte le ideologie e le grandi sfide epocali per il dominio del mondo, il movimento per la pace deve essere capace di radicarsi e modellarsi sulle pieghe dei nuovi conflitti, prevenendoli, costruendo le soluzioni nonviolente. La guerra nella ex Jugoslavia ripropone quella "immagine del nemico", quella "necessità del nemico" che è alla base delle guerre (e della xenofobia, del razzismo) e che sembra quasi connaturata alla moderna psicologia collettiva. Fino a qualche anno fa c'era il Grande nemico (l'Impero del male) e ora se non se li ha, li si costruisce a tavolino. Così fa il PentagonQ, per giustificare il futuro di un ruolo dominante americano nel mondo, prima Gheddafi, poi Noriega, ora Saddam. "Chi trova un nemico, trova un tesoro", si potrebbe dire, parafrasando un vecchio
Foto di Jeon-PoulBoiord (G Neri). adagio. Specie se serve a legittimare i propri interessi economici e di potere. 4. Ecco perché sarebbe sbagliato sottovalutare la straordinaria esperienza pacifista e di solidarietà con la ex Jugoslavia. Quelli che si sono dedicati in questi mesi a raccogliere medicinali, a fare volontariato, a trascorrere le proprie ferie insieme alle vittime del conflitto sono i costruttori di una speranza nuova, di una pace che si declini al plurale: giustizia, diritti umani, solidarietà, convivenza, nonviolenza, i cinque possibili casi. E la significativa esperienza di Time for peace, con pacifisti presenti contemporaneamente a Sarajevo, Belgrado, Zagabria, Fiume, Pristina, Skopie, Novi Sad, Dubrovnik, rilancia un impegno, una promessa: quella di continuare a condividere il dramma delle vittime, quella di sostenere le forze di pace e di dialogo che lì ancora si battono contro la guerra. I prossimi appuntamenti sono tanti e non è possibile citarli tutti: l'accoglienza dei profughi, la costruzione di un grande convoglio di aiuti, la gestione dei campi profughi, l'aiuto ai disertori, il volontariato. Questa è una guerra che nega i valori della convivenza, della solidarietà, dei diritti umani. La "bonifica etnica" ne è la esemplificazione mostruosa. L'azione dei pacifisti la previene e la contrasta. Ex Jugoslavia: paradigma delle nuove guerre e del nuovo impegno dei pacifisti. Crocevia della costruzione di una nuova Europa, simbolo dei valori e di culture che vanno difese ed affermate. Esempio dell'impotenza e della miopia della comunità internazionale. Occasione per ripensare tante certezze o per introdurre nuovi temi: il principio di autodeterminazione, il tema del!' ingerenza democratica, come si difendono i diritti umani e dei deboli. Sono i problemi di un mondo nuovo, di un futuro comune da costruire. Che ci riguarda tutti. IL CONTESTO La via bloccata della violenza Giuliano Pontara 1. Ancora una volta, in Jugoslavia abbiamo assistito alla graduale militarizzazione di conflitti che potevano essere risolti in modo politico, nonviolento. La militarizzazione del conflitto, iniziata in Slovenia, si è allargata alla Croazia, poi alla Bosnia Erzegovina, ed è diventata sempre più intensa e brutale. E non si può purtroppo escludere che essa si allarghi ulteriormente e coinvolga anche la ex provincia indipendente di Kosovo - dove, come noto, il 90% dei quasi due milioni di persone che ne costituiscono la popolazione sono albanesi in gran parte di religione musulmana - e la Macedonia. Ancora una volta, nella guerra che da quasi venti mesi martoria tanta gente in vari territori della ex Jugoslavia, vediamo in atto alcuni processi interdipendenti, estremamente negativi e controproducenti, intimamente connessi all'uso della violenza armata. Sono processi che costituiscono formidabili ostacoli ad una soluzione costruttiva dei conflitti tra le varie etnie e i vari stati della ex Jugoslavia. Per brevità, nel resto di questo scritto mi riferirò a questi conflitti con il termine generale di "conflitto jugoslavo". Uno di questi processi è quello di crescente e sempre più generalizzata de-umanizzazione dell'oppositore: gli esseri umani che fanno parte del gruppo avversario vengono visti sempre di più, e in modo sempre più indiscriminato, come una massa indistinta di individui privi di ogni qualità umana, e che quindi si possono trattare alla stregua di semplici cose. Un siffatto processo di deumanizzazione facilita l'uso di forme sempre più terribili di violenza contro esseri umani appartenenti al gruppo avversario, in quanto diminuisce negli individui i sensi di colpa per quello che fanno ai loro oppositori. Si tratta di un processo che si esprime anche a livello verbale: gli oppositori, caratterizzati come "il nemico", sono variamente, e in misura sempre maggiore e sempre più generalizzata, chiamati "terroristi", "primitivi", "belve assetate di sangue", "porci", "topi", ecc. I mass media aiutano il processo diffondendo, in modo irresponsabile, una stereotipa immagine de-umanizzata dell'oppositore. Le testimonianze dirette e indirette che i mass media nelle varie repubbliche della ex Jugoslavia sono così coinvolti in questo processo sono moltissime. Ciò dipende anche dal fatto che i mass media, nelle varie repubbliche, sono quasi totalmente sotto controllo di forze autoritarie; come ha detto un attivista pacifista serbo: "Mai prima nella nostra storia le forze autoritarie hanno controllato i mass media in modo così efficace come oggi". Un altro processo che si è innescato nel conflitto jugoslavo è quello di crescente brutalizzazione, per cui gli individui che partecipano alla lotta armata sono portati nel prosieguo di essa a diventare sempre più insensibili nei confronti delle morti e delle sofferenze da essi causate e quindi ad usare e accettare, man mano che la lotta armata procede, forme sempre più vaste e gratuite di violenza, ivi comprese le esecuzioni sommarie di "nemici" fatti prigionieri. Questo processo di crescente brutalizzazione è in parte aiutato da quello di de-umanizzazione dell'avversario cui ho appena accennato. Ma è anche ulteriormente favorito da due altri fattori: da una parte dal militarismo, proprio, come di ogni esercito, anche dell'esercito federale, uno dei più armati d'Europa; dall'altra dal diffondersi, nel vuoto ideologico lasciato dalla caduta degli ideali di fratellanza, di socialismo decentrato e 5
IL CONTESTO autogestionario - specie tra le generazioni di giovani uomini - di una "cultura rambo" che, indipendentemente, da dove si verifichi, non esiterei a caratterizzare come fascistoide: perché è una cultura caratterizzata dalla glorificazione della violenza, dal disprezzo dei deboli, che esalta il bullo, e nell'ambito della quale il forte è esclusivamente identificato con il violento. Direttamente o indirettamente le immagini di questi giovani ci sono ben note: vestiti in uniformi mimetizzate, con nastri neri attorno al capo, le magliette su cui sono stampati slogan guerrieri, pugnali fissati agli stivali, una bomba a mano che pende dalla cintura e un Kalachnikov sulla spalla, dall'aria spavalda; ma chissà quanti di loro sono vittime di una pressione di gruppo alla quale non hanno la forza di resistere e dentro di sé magari hanno paura della loro stessa immagine esterna. Ma intanto uccidono, fanno esecuzioni sommarie, non rispettano le tregue, contribuiscono ad un'ulteriore escalation della violenza e ad una ulteriore brutalizzazione del· conflitto. Un terzo processo che si è innescato nel conflitto jugoslavo è l'emergere a rango di leadership politica e militare di individui e quadri tra i quali le inibizioni nel confronto dell'uso della violenza, anche di quella più brutale e gratuita, sono molto basse: notoriamente, alcuni di questi leader sono ex criminali, qualcuno di essi addirittura ricercato dalla polizia di altri Paesi. Tutti e tre i processi accennati, oltre che essere il più immediato effetto dell'escalation della violenza, sono allo stesso tempo una delle cause più immediate dell'ulteriore escalation di essa. 2. In Jugoslavia vi era una possibilità di sviluppo democratico all'interno di uno stato costituito da una federazione di repubbliche autonome. I vari gruppi etnici erano convissuti in relativa armonia per mezzo secolo, i matrimoni ed i contatti tra di essi erano andati sempre più aumentando. Un importante presupposto per una soluzione pacifica, costruttiva e accettata del conflitto poteva anche essere il cosiddetto "SANU Memorandum", un documento elaborato dall'Accademia serba delle scienze. Sia in Slovenia che in Croazia questo documento, che evidentemente costituiva un ostacolo per gli uomini politici e i gruppi che volevano la secessione, venne frettolosamente, e spesso senza una diretta conoscenza di esso, condannato come una espressione dell'espansionismo di Milosevic. Ora è vero che il documento in questione, verso la fine, sosteneva che ad un aggravamento dell'esclusionismo nazionalista l'unica alternativa per la Serbia era quella di fare valere i propri interessi nazionali e quelli delle minoranze serbe nelle altre repubbliche. Ma il documento favoriva soprattutto, in modo concreto, lo sviluppo di una moderna federazione jugoslava realmente democratica, un sistema econo· mico razionale, estesi diritti civili, rispetto per le minoranze, ed una prospettiva culturale cosmopolita. Esso contiene anche una dettagliata analisi del processo di disintegrazione dello Stato federale dopo la morte di Tito. Anche tra le minoranze serbe vi erano vari gruppi con vari atteggiamenti. Un gruppo era costituito da quei serbi che, vedendo le differenze tra serbi croati sloveni e musulmani come puramente storiche, erano favorevoli a una completa assimilazione. Questo gruppo era particolarmente forte tra i circa 60.000 serbi viventi a Zagabria e anche tra quelli viventi nelle campagne della Croazia dove per cinquant'anni avevano convissuto senza alcuna difficoltà con i contadini croati. Questo gruppo è oggi con tutta probabilità molto più esiguo di quanto non fosse prima che il conflitto deteriorasse in guerra. Un secondo gruppo era costituito da quei serbi che propugnavano una politica di piena cittadinanza, di uguali diritti per le 6 minoranze serbe all'interno di stati costituzionali indipendenti. Anche questo gruppo è oggi probabilmente meno folto di quanto non lo fosse precedentemente. Un terzo gruppo era costituito dai serbi che esigevano vari gradi di autonomia per le minoranze serbe all'interno di stati costituzionali indipendenti. Questo gruppo è probabilmente ancora assai consistente. Un quarto gruppo infine era costituito da quei serbi che propugnavano o l'annessione alla Serbia oppure la creazione di stati serbi indipendenti nelle aree dove la popolazione serba è chiaramente in maggioranza. Questo gruppo, bene armato, deciso a realizzare i propri obiettivi con la violenza, fornito di una organizzazione che in gran parte sfugge al controllo di ogni autorità politica costituita, era - ed è - molto attivo, tanto in Croazia quanto in Bosnia. Esso è tra i corresponsabili della militarizzazione del conflitto jugoslavo. 3. Ritengo però che corresponsabili della militarizzazione del conflitto siano anche i gruppi di sloveni, croati e musulmani che hanno favorito una intransigente e anche frettolosa politica di secessione fondata in parte su quello che Sigmund Freud chiamava "il narcisismo delle piccole differenze": la tendenza a mettere in primo piano e sfruttare politicamente al massimo le differenze fra i vari gruppi limitrofi, a scapito di tutto quello che essi hanno in comune. Questa tendenza è contraria alla impostazione nonviolenta del conflitto: in essa annidano già i semi della violenza. Dietro una siffatta politica di secessione stavano in parte forti motivazioni egoistiche volte a saivaguardare il maggior benessere economico di cui godevano certi strati di popolazione nelle repubbliche secessioniste, in parte pretese di sovranità territoriale nelle quali si esprimevano più che non l'adesione ai principi di autodeterminazione, di democrazia e di cittadinanza indipendente ed uguale per tutti, sete di potere di politici e un nazionalismo sciovinista che, sulla scia della violenza che ne è scaturita, ha poi portato sempre di più in superficie l'idea reazionaria e ripugnante di "patria etnica". Non a caso, penso, la costituzione della Croazia, nella quale precedentemente era sancito che la Croazia è "repubblica dei croati e dei serbi", è stata cambiata ed ora dice che la Croazia è una "Repubblica dei croati". La politica di secessione, che poteva prospettarsi come una politica realistica - il che non significa giustificabile - nel caso della Slovenia, che praticamente non aveva minoranze, non si prospettava certamente tale per la Croazia, in cui vivevano circa 600.000 serbi (pari ali' 11 % della popolazione); e si prospettava estremamente azzardata, se non semplicemente avventata (visto quello che nel frattempo era successo in Croazia) nel caso della Bosnia Erzegovina, dove i serbi erano 1.300.000 (pari al 31%della popolazione) ed in più vi era anche una forte minoranza croata. Una siffatta politica è stata tuttavia perseguita da forze evidentemente irresponsabili e appoggiata dall'esterno da forze altrettanto irresponsabili (prima fra tutte la classe politica dirigente in Germania). Il risultato è oggi davanti agli occhi di tutti, con la Bosnia che appena costituitasi come stato indipendente si è disintegrata ed ha cessato in pratica di essere tale. 4. Anche l'Europa occidentale è•fortemente corresponsabile della militarizzazione del conflitto. Non si può certo dire che i Paesi europei e la CEE abbiano condotto, relativamente alla crisi jugoslava, una politica sistematicamente fondata su di una precisa e coerente filosofia di risoluzione costruttiva dei conflitti. La politica dei Paesi europei,è stata invece caratterizzata da un insieme di iniziative che si sono dimostrate estremamente con-
traddittorie. Dapprima si è appoggiata l'idea di tenere assieme lo Stato federale jugoslavo come stato unico. Poi, specie sotto la spinta della Germania, e contro i pareri di Lord Carrington e di Butros-Ghali, i Paesi della Comunità europea hanno fatto una virata di centottanta gradi e sono passati ad appoggiare frettolosamente la politica di secessione e quindi la costituzione degli stati indipendenti di Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina. L'indipendenza della Bosnia viene riconosciuta (il 6 aprile dell'anno scorso - giorno in cui ricorreva il cinquantunesimo anniversario del bombardamento di Belgrado ordinato da Hitler!), nonostante che il 33% della popolazione si fosse espressa chiaramente contro, e senza che venissero non dico risolti, ma almeno avviati a soluzione complessi problemi come quelli dolla delimitazione precisa dei confini del nuovo stato, della garanzia dei diritti delle minoranze, e della determinazione della parte del debito dell'ex federazione jugoslava che il nuovo stato di Bosnia doveva addossarsi. Inoltre, i Paesi occidentali hanno anche chiuso gli occhi sul fatto che la Germania, in piena contravvenzione con la politica dell'embargo sulle armi decretata dall'Onu, armava la Croazia di Tudjman. Come hanno chiuso gli occhi quando il gm ~rno di Bosnia ha riconosciuto come "forze legittime di difesa" le camicie nere croate del partito di Dodroslav Pargas. Nemmeno la politica dell'Onu è stata all'altezza della drammaticità della situazione. Ci voleva una ben più decisa e precisa presa di posizione a. favore di una soluzione autogestionaria all'interno di una repubblica federata Jugoslava e la condanna di ogni politica secessionista nazionalista. Ci voleva, molto prima di IL CONTESTO Fotodi Jean·PaulBajard (G. Neri). quanto non avvenne, una dura, precisa condanna di ogni idea di "patria etnica". Ci voleva, già nel momento in cui in Croazia il conflitto slittava verso la guerra civile, un massiccio intervento di pace da parte dei caschi blu. Anche la politica di embargo nei confronti della Serbia è molto discutibile. Non soltanto perché essa colpisce in primo luogo i più poveri e gli innocenti e favorisce una diffusa criminalità nella società serba; ma anche perché, come poi si è visto nelle ultime elezioni del 20 dicembre, ha favorito quelle forze politiche che in Serbia e in Montenegro hanno maggiormente ostacolato una politica di pace. E uno sbaglio è stato non riconoscere la nuova federazione di Serbia e Montenegro e darle il posto che le spetta nell'Onu. 5. Di fronte a conflitti come quelli in atto nella ex Jugoslavia, specie in Bosnia, caratterizzati dai processi di cui ho parlato sopra, è difficile vedere soluzioni, sia di carattere nonviolento, sia attraverso il ricorso ad un intervento militare da fuori. È irrealistico sperare nella possibilità di un ridimensionamento del conflitto in Bosnia, o di quello in Croazia (che può rincrudire di nuovo, specie se il governo di quel Paese persiste nel suo intento di chiedere in marzo il ritiro delle forze dell'Onu) in base ai principi della lotta popolare nonviolenta. Per una siffatta lotta non esistono oggi, né in Bosnia né in Croazia, e probabilmente neanche nel Kosovo, i presupposti; non vi è una tradizione e una preparazione di lotta nonviolenta; non esistono, che io sappia, personalità politiche e culturali di spicco che professino attivamente la 7
IL CONTESTO nonviolenza e in grado di aggregare e portare ad espressione politica il desiderio di pace e fratellanza che ancora esiste in vasti strati di popolazione; i gruppi fautori di una lotta nonviolenta sono estremamente esigui, e almeno un gruppo sedicente pacifista, come quello che fa capo al Centro per la pace di Sarajevo, chiede espressamente un intervento militare dal di fuori. Ma, d'altra parte, anche un attivo intervento militare dal di fuori è estremamente problematico: chi si manda a uccidere chie a farsi uccidere? Soldati di eserciti regolari di altri Paesi, e solo se sono disposti ad andarci come volontari? Caschi blu? O mandiamo in primo luogo quelli che più gridano - per esempio sui giornali-in favore di un intervento armato? O diamo, ancora una volta, carta bianca al gendarme del mondo, agli Usa? E che tipo di azioni militari si fanno? Si bombardano le postazioni dell'artiglieria serba o si bombardano anche le retrovie, le fabbriche e depositi di armi ubicati in centri abitati? Come si interviene militarmente contro le bande militari dell'ultranazionalismo serbo che operano in territori in cui coabitano varie minoranze? Come si organizza, nel lungo periodo, una lotta militare contro i movimenti di minoranze ultranazionaliste che non vorranno deporre le armi ma continueranno a condurre una guerra di guerriglia? E non vi è un grosso rischio, come ha messo in guardia un alto ufficiale dei caschi blu, che un intervento armato dal di fuori conduca ad un'ulteriore escalation della violenza, portando ad un allargamento della guerra al Kosovo? Sono interrogativi angoscianti. Nel momento in cui scrivo nessuno sa come andranno a finire le trattative di Ginevra sulla partizione della Bosnia in una serie di aree a grande autonomia. Qui, forse, c'è uno spiraglio di luce. Ma rimane comunque il fatto che la militarizzazione del conflitto ha creato problemi molto maggiori di quelli che inizialmente hanno portato al conflitto. Ci vorranno decine e decine di anni, ed Foto di Jeon·PoulBojord (G Neri) a una profonda politica di distensione e di educazione delle nuove generazioni, per sanare le lacerazioni, placare gli odi ed il desiderio di vendetta che la violenza ha creato ed acuito. Inoltre, è anche essenziale che l'Europa cambi in modo diverso da quello in cui sta cambiando. Non si può certo dire che gli Stati dell'Europa occidentale abbiano offerto alle varie etnie jugoslave, tese a garantire certi propri interessi attraverso la costituzione di stati indipendenti, un modello positivo di riferimento. Gli Stati Europei sono tutti stati nazionali, forniti di eserciti e di armi micidiali, da sempre fautori di una logica di potenza fondata sulla violenza e la minaccia di essa, che tendono ad emarginare sempre di più quelli che sono economicamente più deboli, che praticano forme molto avanzate ed economicamente sofisticate di neocolonialismo e si chiudono sempre di più nei confronti degli extraeuropei e delle popolazioni del Sud più povero e meno sviluppato. La stessa Comunità europea marcia in direzione di un sistema sempre più militarizzato, disposto a difendere i propri grandi privilegi con le armi più sofisticate. La recente formazione del primo contingente della brigata franco-tedesca di 40 mila uomini, formalmente sancita dall'accordo firmato da Mitterand e Kohl venerdì 22 maggio 1992, è il primo nocciolo del costituendo futuro esercito unificato della Comunità europea, in cui l'arsenale termonucleare francese, e magari anche quello inglese, e il capitale e l'industria tedesca, sono destinati ad essere i grandi pilastri. Secondo le direttive contenute nel trattato, un importante compito della brigata è quello di partecipare ad operazioni al di fuori dell'area Nato per stabilire e mantenere la pace, come ad esempio in casi simili a quello della guerra del Golfo o, appunto, a quello del conflitto jugoslavo. Non vi sono molti dubbi che la pace di cui qui si parla è una Pax europeo occidentale-americana. È importante che nasca un'altra Europa. Non l'Europa degli stati delle multinazionali e del militarismo, nella quale la democrazia diventa sempre più dimidiata e formale, ma un'Europa dei popoli e delle regioni autonome, un Europa veramente democratica, fondata sui principi di uguaglianza, tolleranza e solidarietà, che riconosca a tutte le minoranze, etniche, linguistiche, religiose, culturali, pari diritti di piena cittadinanza, a condizione che ciascuna minoranza rispetti gli stessi diritti per gli altri. Un'Europa molto più sensibile alle istanze di giustizia planetaria che vengono dai popoli più poveri dei paesi del Sud. Un'Europa che ha abbandonato il concetto tradizionale di sicurezza basato sulla detenzione di un sempre maggiore apparato militare e sulla minaccia di una violenza sempre più massiccia - e che invece fa proprio un concetto più lato, e oggi anche più adeguato, di sicurezza basato su vaste forme di aiuto e di collaborazione nei confronti dei paesi del Sud. Soltanto se l'Europa va in questa direzione sarà possibile risanare le grandi e profonde lacerazioni create dalla militarizzazione del conflitto jugoslavo e trovare ad esso, in prosieguo di tempo, una soluzione stabile, una soluzione che non porti a nuove guerre o nuovi conflitti violenti dentro e tra i nuovi stati che si sono venuti creando.
IL CONTESTO Xenofobia e antisemitismo Alcune riflessioni Stefano Levi Della Torre 1. Gli "ultra" allo stadio sognano una vittoria assoluta della loro squadra e un annientamento dell'avversario. Dal loro punto di vista, la partita è un gioco "a somma zero": vittoria più sconfitta= zero. La'partita è allora un simbolo di tutti i "giochi a somma zero", di tutti gli antagonismi totali, che sono quelli più tragici ma anche quelli intellettualmente ed emotivamente più elementari. Corrispondono allo schema binario "sì, no". L'esaltazione di Auschwitz allo stadio ha lo stesso senso: anche i nazisti sostenevano di aver ingaggiato con gli ebrei un "gioco a somma zero": o noi annientiamo loro o loro annienteranno noi. Così, la competizione sportiva è vista come antagonismo assoluto, come "soluzione finale", e Auschwitz ne è il paradigma e l'ideale. La partita invece di disinnescare il conflitto giocandolo, lo amplifica e lo proclama come intenzione politica. Domanda: è l'odio contro gli ebrei a ispirare un antagonismo assoluto, o è il bisogno di un antagonismo assoluto, elementare e risolutivo, ad assumere lo sterminio nazista come bandiera? È più la seconda cosa che non la prima; ma ciò non tranquillizza, perché anche l'antisemitismo strettamente inteso è ispirato dagli stessi meccanismi "astratti", dai principi economici dell'odio che governano i nostri comportamenti sociali non meno di quelli dell'amore e della solidarietà; odio e amore come istanze "a priori", che solo dopo trovano il loro oggetto, magari già codificato dalla tradizione. Chi esalta Auschwitz allo stadio, non lo fa, come qualcuno ha sostenuto, per ignoranza. Al contrario, lo fa proprio perché di Auschwitz sa quanto meno l'essenziale: che vi furono sterminate milioni di vittime, vagheggiate come nemici mortali. Per lungo tempo ho creduto, come molti, che la conoscenza dei campi di sterminio fosse il principale antidoto contro ideologie naziste o di "pulizia etnica". Ora le cose mi sembrano più complicate. Le conseguenze del sapere mi sembrano meno univoche. Da un lato, è vero, il sapere educa i molti, ma per altri può essere assuefazione o persino istigazione. È successo, dunque può succedere di nuovo, ha detto Primo Levi. (Ad esempio succede in Bosnia). Ha anche detto: chi nega che sia successo quel che è successo è proprio quello che è pronto a rifarlo. Ma forse è pronto a rifarlo o ad accettarlo, anche chi non nega affatto quanto è successo. In altri termini, mi sembra semplicistico pensare che la battaglia su questo fronte sia quella del sapere contro l'ignoranza. È una battaglia di principi, di valori e di coscienza, e il "sapere" non è ancora tutto questo, come il nazismo, che non era fatto di incolti, ha dimostrato. È anzi proprio questo rapporto tra sapere e barbarie uno dei problemi centrali che il nazismo ci ha lasciato in eredità. 2. Prima di tradursi eventualmente in atti concreti di persecuzione, l'antisemitismo è qualcosa di imponderabile. È difficile dire se lo si stia sopravvalutando o sottovalutando. Alita nelle sfere del linguaggio e delle rappresentazioni mentali, del "diritto di opinione" e della "libertà di espressione", un alito pesante, che non si sa se attribuire a cattiva digestione di qualche evento storico in corso, o a qualche più antica malattia contagiosa ereditaria. · Distinguiamo: la xenofobia sembra crescere in proporzione all'immigrazione e al mutamento del paesaggio umano, mentre l'antisemitismo non ha relazione con i dati qualitativi inerenti agli ebrei. La xenofobia se la prende coi vivi, l'antisemitismo (per ora) soprattutto con le tombe e con la loro memoria. Ciò mette in evidenza il carattere simbolico dell'antisemitismo. Ma simbolico non vuol dire innocuo: sullo sfondo dei campi di sterminio c'era appunto la sovraproduzione simbolica propria del nazismo. Ora che le simbolizzazioni che ci hanno orientato e contrapposto dopo la II Guerra mondiale sono logorate e avvilite, l'antisemitismo agita i suoi simboli in un contesto simbolicamente indebolito. Lo sfacelo del comunismo e gli affanni economici e istituzionali delle democrazie lasciano uno spazio pericolosamente vuoto; e come la scomparsa della minaccia di guerra nucleare tra superpotenze ha portato a un moltiplicarsi di guerre di ferocia senza limiti, così il crollo dei grandi schieramenti ideologici lascia il campo a ideologie senza remore. Adifferenza dello xenofobo o anche del razzista, che sviliscono l'oggetto della loro ostilità, l'antisemita immagina nell'ebreo (o nel "sionista") una figura di gigantesca e malcelata potenza politico-economica. Lo immagina complottare tenendo in mano le redini del mondo: i mass-media, la finanza, la politica americana. E in un periodo in cui la storia è difficile da interpretare poiché sono caduti i parametri usuali di interpretazione, quale il conflitto Est Ovest, chi propone la potenza e l'intenzione degli ebrei come spiegazione di quel che succede va incontro a suo modo al diffuso bisogno di comprendere. Il fascino dell'antisemitismo sta nella sua vocazione esplicativa. Diceva Mare Bloch che la nostra mente è molto più propensa a comprendere che a conoscere. L'antisemitismo comprende il mondo attraverso gli ebrei, senza darsi la pena di conoscere gran ché né del mondo né degli ebrei. 3. L'antisemitismo ha dunque due caratteri attraenti: risponde a una carenza di simbolizzazione, e risponde a un'esigenza di "comprendere". Ma c'è un'altra istanza oggi diffusa a cui l'antisemitismo risponde a suo modo: il bisogno di tradizione. Le analisi che legano l'antisemitismo a cause obiettive o congiunturali, quali la crisi economica, la disoccupazione, le incertezze psicologiche e materiali, colgono certo il vero, e il contesto in cui il fenomeno si manifesta, ma coprono una dimensione e un modo di funzionare dell'antisemitismo che ha altri ritmi e altri registri: coprono cioè il fatto che l'antisemitismo è una tradizione, si trasmette come una tradizione, ha l'andamento fluttuante ma persistente· di una tradizione, ossia di un fattore antropologico-culturale nell'Europa cristiana e post-Cristiana. Un suo terreno di persuasione e sviluppo si trova proprio nel bisogno diffuso di tradizione, di rifondazione e radice di fronte al mutamento e alle mescolanze. È quanto sta avvenendo, segnatamente nell'Europa centro-orientale: chi è spinto a riagganciarsi alle tradizioni popolari polacche, o ungheresi, o rumene, o russe vi troverà come componente essenziale l'antisemitismo; chi voglia rifarsi al filo ininterrotto di una tradizione dell'Europa cristiana vi troverà intrecciato l'antisemitismo. Vi troverà anche di meglio, certo. Ma il bisogno di tradizione e radice, cioè di identità duratura, segna questa fine 9
IL CONTESTO di secolo; e quanti sentono quel bisogno si trovano a fare i conti anche con l'antisemitismo, per assumerlo o per negarlo. La giudeofobia è una delle poche tradizioni che possa competere in antichità con l'ebraismo stesso. In quanto tradizione, è trasmessa di generazione in generazione, e tuttavia in ogni generazione è reinventata, attualizzata e giustificata secondo i parametri del!' epoca e del contesto. Come ogni tradizione si ripete rinnovandosi, di volta in volta. Anche la xenofobia si ripete di generazione in generazione, ma per lopiù la sua ispirazione è empirica; essa risponde a dei dati di fatto, cioè alla presenza e al contatto con estranei; si ripete in quanto si ripetono le sue cause empiriche. Schematicamente: per la xenofobia, l'ispirazione è nel dato di fatto e solo a "posteriori" essa trova le sue sistemazioni ideologiche e tradizionali; per la giudeofobia è l'inverso: la sua ispirazione è nella tradizione, e solo a posteriori essa trova nei dati di fatto (veri o presunti) le sue conferme e la sua attualità. Lo xenofobo parte dal disagio datogli da nuove presenze reali, e poi dà forma e ragione a quel disagio; l'antisemita parte da stereotipi tradizionali sugli ebrei, e se poi viene a sapere, ad esempio; della presenza reale di un ebreo in un consiglio di amministrazione ritiene questo fatto una dimostrazione razionale di quanto già "sapeva" circa il "potere ebraico nel mondo". Tant'è vero che la xenofobia in genere non si manifesta in assenza di stranieri; mentre l'antisemitismo alligna anche dove gli ebrei non ci sono o sono una minoranza esigua: è il caso della Polonia, della Germania e anche dell'Italia. 4. Nel corso del XIX secolo, quando furono codificati come dottrine "scientifiche" moderne, razzismo e antisemitismo si volgevano verso due versanti: il razzismo era la giustificazione dell'invasione e dello sfruttamento coloniale di popoli "inferiori"; l'antisemitismo esprimeva invece l'idea che con la secolarizzazione e l'emancipazione degli ebrei un potere estraneo si fosse attivato all'interno stesso del tessuto sociale, che gli ebrei liberati dall'interdetto invadessero i gangli vitali della società come una metastasi ostile e vendicativa. Il razzismo giustificava l'espropriazione e lo sfruttamento degli altri; l'antisemitismo dava una "spiegazione" al senso di essere espropriati e sfruttati, cosa per altro reale, ma nel quadro capitalistico. Il razzismo Foto di RomanVishniac (1936, da Un mondo scomparso, edizioni e/ o). 10 giustificava l'invadere e il colonizzare; l'antisemitismo lamentava l'essere invasi e colonizzati. Nelle condizioni di oggi, di immigrazione, la percezione dominante è quella di essere invasi. In questo senso, la tradizione antisemita e le pulsioni xenofobe si sono avvicinate. Ora il vittimismo, che è carattere peculiare dell'antisemita che si proclama minacciato dall'invadenza ebraica, è anche carattere peculiare della xenofobia che reagisce all'invadenza migratoria. L'interdipendenza tra le regioni del mondo ha raggiunto un grado tale, che si parla di governi e di sistemi giuridici mondiali. Ma l'interdipendenza non è una dimensione lontana dall'esperienza quotidiana delle persone: l'immigrazione è una delle materializzazioni più visibili dell'interdipendenza tra povertà e ricchezza a scala mondiale. Il cambiamento del paesaggio umano nelle nostre città ci parla ogni giorno del!' interdipendenza, delle mescolanze che induce, dell'evanescenza dei confini. Lo spazio dilatato dell'interdipendenza ci trasmette la sensazione di perdere il controllo dello spazio; e una risposta reattiva è appunto nella riproposizione di confini, regionali, etnici, razziali, anche se il razzismo a sfondo biologico ha lasciato per ora il campo al razzismo "differenzialistico" tra culture. I confini diventano più interni, tra gruppi umani e tra comunità distinte, e l'antisemitismo è il prototipo dei confini verso l' "estraneo interno", tra maggioranza e minoranza antropologica, tra norma e devianza culturale. 5. Riassumiamo ora i motivi per cui varrebbe la pena essere antisemiti oggi: - l'antisemitismo risponde a suo modo alla carenza e al bisogno di simbolizzazione, di figurazione sintetica del mondo; - risponde al bisogno di tradizione, di radici dell'identità sprofondate nella storia e nel mito; -essendo insieme tradizione locale e tradizione dell'Europa cristiana, è insieme "etnico" ed "europeista"; -risponde al bisogno di comprendere la storia, in un periodo in cui è particolarmente difficile conoscerla: 1'ebreo come potere causale, come l'incarnazione antropomorfa dell'interdipendenza "mondialista"; - risponde alla sensazione di essere invasi, compenetrati dall'altro: l'ebreo è paradigma di ogni intrusione; - poiché configura l'ebreo come potere invadente, esalta il vittimismo e l'autocommiserazione, che giustifica e dà sollievo alla frustrazione individuale e sociale; - poiché configura l'ebreo come usura che espropria, dà forza antropomorfa e simbolica al senso di espropriazione politica ed economica che la crisi economica e istituzionale diffonde in Europa. Comunque, non possiamo valutare il pericolo solo su scala locale e nazionale. L'accentuarsi dell'antisemitismo a Est ha una influenz.a ad Ovest. 6. Quale rapporto potremmo ipotizzare oggi tra xenofobia e antisemitismo? Parafrasand~ Mao, potremmo forse dire: la xenofobia come base e l'antisemitismo come fattore di guida. In questo senso: che la reazione xenofoba al mutamento demografico difetta di simbolizzazione, stenta a farsi dottrina, e l'antisemitismo le può fornire il codice simbolico dell'esclusione, del confine
interno, del ghetto, della "difesa" di sé dall'intrusione dell'altro. La xenofobia è un arcipelago incoerente di disagi reali e di stereotipi, ma non è ancora razzismo, inteso come fissazione delle differenze in una forma ideologica coerente. Forse, appunto, l'antisemitismo potrebbe catalizzare la trasformazione dell'arcipelago xenofobo nel continente compatto di un'ideologia razzista. (D'altra parte, i nazisti di oggi imputano al "mondialismo" ebraico l'essere fautore della trasparenza dei confini e dunque dell'immigrazione). Ma fortunatamente avviene anche il contrario: proprio perché l'antisemitismo ha dimostrato in questo secolo il limite a cui possono arrivare le ideologie della differenza, esso è rifiutato, nella sua forma esplicita, dai molti, e ciò trattiene dallo spingere le proprie pulsioni xenofobe fino a farne un'ideologia. In questo senso, l'antisemitismo di quelli che disegnano svastiche sui muri o sulle tombe sembra avere effetti controproducenti rispetto alle proprie intenzioni: dà un segnale d'allarme e risveglia gli anticorpi sociali. L'hanno dimostrato, in Italia, le stelle gialle sui negozi ebrei di Roma, nel novembre 1992: c'è stata una risposta massiccia e prolungata. Ma le forme acute forniscono un alibi alle forme croniche: "non siamo nazisti, anzi siamo contro, dunque non siamo né razzisti né antisemiti". Eppure l'area dei "portatori sani" di antisemitismo è piuttosto estesa, e in buona misura inconsapevole, come siamo tutti poco consapevoli dei nostri sostrati antropologico-culturali. Ci sono intellettuali della reazione cattolica, come Vittorio Messori (su "L'opinione") o Franco Cardini (su "Il sabato") che vanno promuovendo una nuova forma di "revisionismo storico", secondo il quale il razzismo e l'antisemitismo moderni, e lo stesso nazismo, non avrebbero alcun ascendente nei due millenni di martellante antigiudaismo cristiano, ma sarebbero figli esclusivi dell'illuminismo, sicché le loro tesi, per altro venate di antisemitismo tradizionale, ne sarebbero immuni. Scagionare la matrice cristiana della tradizione antisemita è un pericolo. È tuttora feconda e continua a generare stereotipi anche in forma secolarizzata. L'idea ad esempio che la politica "sionista" sia ispirata da una "religione spietata e di vendetta" deriva da un assunto antigiudaico antico-cristiano ed è molto in voga nella sinistra. Ma il pericolo si misura anche da quella perversione dell'idea di tolleranza secondo la quale si avrebbe il "dovere democratico" di offrire tribune pubbliche ai neonazisti e agli antisemiti di attualità. Il difetto non sta tanto nel fatto in sé, quanto nell'idea di tolleranza e di democrazia che sottintende. È vero che Voltaire ha detto: mi batterò fino alla morte perché tu possa esprimere le tue idee, anche se sono contrarie alle mie; ma aveva premesso: mi batterò con tutte le mie forze contro quelle tue idee. Appunto, la perversione consiste nel tener buona la conclusione lasciando perdere la premessa, cioè la contrapposizione di contenuti. Come se la democrazia dimostrasse la sua superiorità risolutiva sul solo piano del metodo, offrendo microfoni ai suoi nemici; come se la democrazia fosse un'idea andreottiana, una specie di pantano senza principii, capace di dissolvere in melma ogni contrapposizione di principio. La critica delle certezze, il senso di colpa per le certezze sconfitte, sfocia qua e là in un relativismo integrale secondo cui un'opinione vale l'altra, ognuna è tanto inconsistente quanto "degna di rispetto", e anche la falsa testimonianza di chi nega che siano mai esistiti i campi di sterminio rientra nel diritto di opinione, dato che non esisterebbero criteri validi di verità. Questo relativismo filosofico è una delle forme di suppurazione intellettuale presenti nella sinistra, tra quelli che, avendo sostiIL CONTESTO tuito i dogmi del passato con il dogma del dubbio, non saprebbero più se dar ragione a Galileo o al Cardinal Bellarmino. 7. Il grado di pericolo attuale dell'antisemitismo non si misura tanto dai suoi punti di massima intensità, 9uanto dalle sue rispondenze in verticale e in orizzontale. "In verticale" significa che tra la base e i vertici istituzionali si produce una sinergia: è quando i governi, le magistrature e le polizie, le chiese e le università producono disposizioni e messaggi che alimentino o non contrastino i movimenti xenofobi o antisemiti. Nell'autunno scorso, ad esempio, nel pieno delle mobilitazioni xenofobe in Germania, esponenti del governo e dell'industria tedeschi proposero di com111emorarei missili che il governo hitleriano aveva scagliato contro l'Inghilterra e il Belgio: si voleva esaltare un importante risultato tecnologico. Anche se gli argomenti dei vertici e gli argomenti della piazza erano diversi, si disponevano però in sinergia, entravano in reciproca risonanza "verticale". (La commemorazione è stata poi revocata.) L'estensione "orizzontale" si può misurare invece sul grado di consenso, o di tolleranza o di indifferenza con cui la popolazione guarda le manifestazioni estreme. È il caso di Rostock, ad esempio, dove molti cittadini applaudivano gli assalti dei giovani neonazisti contro le case degli asylanten. È il problema della "zona grigia", la quale non è attiva ma per buona parte galleggia mollemente su un sostrato di antisemitismo e di opache pulsioni xenofobe. Dalla sua inerzia in un senso o nell'altro dipendono gli sviluppi o il soffocamento delle tendenze estreme. In Italia, "L'indipendente", "L'Italia settimanale", "Il sabato", sono gli organi di un'area politica e culturale di nuova destra, insinuante e populista, che ha fatto della "zona grigia" il suo eroe, e ne vellica con piglio libertario gli umori più conformistici. Il quadro è però contraddittorio. Le manifestazioni democratiche, i dibattiti nelle scuole, l'atteggiamento prevalente nei mass media e nei sindacati hanno contrastato l'estensione orizzontale. Nelle istituzioni e nei governi sembrano prevalere le tendenze a respingere o contenere la sobillazione di destra, contrastandone l'estensione in verticale. Mi sembra una situazione diversa da altri periodi, anche peggiori, della storia europea. Diversa sul piano civile, ma anche su quello religioso. Ogni volta che il cristianesimo riprende contatto con i suoi fondamenti per riproporsi e rilanciarsi (ed è il caso di oggi) non può che trovarsi di fronte ai suoi rapporti con l'ebraismo. È una questione originaria, non risolta e forse non risolvibile. A fondamento del cristianesimo stanno infatti due movimenti divergenti e complementari: l'assunzione della matrice ebraica (]"'Antico Testamento") e la condanna degli ebrei. Per nascere il cristianesimo ha dovuto prendere dagli ebrei, e rifiutare gli ebrei. Protestanti e cattolici (non mi risulta per gli ortodossi) si dibattono anche oggi tra due tendenze: quella dell'antigiudaismo e quella del confronto e del dialogo ebraico-cristiano. Così, nello stesso momento in cui il presidente della CEI, cardinale Camillo Ruini, ribadisce e rilancia alla vigilia della Pasqua 1992 il principio dell'antigiudaismo teologico (gli ebrei sono stati reietti da Dio, perché hanno rifiutato il Cristo), il cardinale Martini fa suo il pronunciamento di Bonhoeffer contro il nazismo: "Chi non grida a difesa degli ebrei non è degno di cantare il gregoriano". Nel mondo cristiano si risvegliano le spinte antisemite, ma anche quelle opposte: è una differenza, rispetto alla fine del secolo scorso, quando le Chiese e i nazionalismi, movendo da presupposti contrari (le une in senso "universalistico", gli altri in senso particolaristico) trovarono nell'antisemitismo un punto di convergenza e di compromesso che preparò la tragedia. , ,
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