Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

IL CONTESTO per sopprimere fame e paura nel corso della giornata, e l'altra metà serve a mantenere le posizioni e razziare case o convogli di aiuti, le uniche scarse risorse alimentari a disposizione della popolazione urbana. In un paese in cui da due anni non si produce più cibo, e non esistono più salari o servizi, anche i fili della luce, e il prezioso rame al loro interno, possono servire come moneta di scambio per altre armi, che servono ad altre razzie, che estorcono altro cibo. Così, nel non-Stato predatorio di Mogadiscio, tutto è tassato, dal passaggio dei feriti a quello dei giornalisti, dai convogli di aiuti a quelli umanitari. Potranno altre armi combattere la voce delle armi già in azione? C'era bisogno, in tale situazione di un ulteriore esercito di occupazione formato di 30.000 americani armati, e qualche altra migliaia di contingenti armati europei, dalla Francia all'Italia (le altre due ex-potenze coloniali sul posto), più aiuti militari esterni della Gran Bretagna, Belgio, Canada, Turchia, Egitto e, non ancora ammessi al grande festino militare, Germania e Giappone? Non di questo c'era e c'è ancora bisogno, ma dell'avvio· immediato di un processo di pacificazione sociale non armato, cioè intorno a un progetto politico meno fragile di una semplice stretta di mano tra Ali Mahdi e il generale Aidid, di una ripresa delle attività produttive ora quasi interamente abbandonate da popolazioni in fuga o in lotta, di un rinnovato patto nazionale che sappia fare i conti con la complessa realtà somala del dopo Siad e dei guasti arrecati dal suo regime al fragile tessuto delle alleanze etnico-nazionali e politiche del post-indipendenza. Se ciò sia ancora possibile è troppo presto per dirlo, ma sappiamo per certo che uomini e luoghi attanagliati da sempre dalla fame e dal bisogno reagiscono a momenti di crisi (e non è questo l'unico nella tragica storia della Somalia e dei paesi della regione) prima e innanzitutto con forze interne e risorse locali che occorre stimolare e far crescere e, se occorre, guidare e canalizzare entro quadri di ricomposizione nazionali e regionali. Sappiamo anche, perché ce l'ha insegnato la tragica esperienza della fame nel Sahel e in Etiopia, e oggi in Mozambico, che rastrellamenti militari, campi profughi o di contenimento, sistemi di sostentamento attivati unicamente dall'esterno, e in generale ogni risposta militare o meramente coercitiva alla fame - perché pur sempre di fame si tratta - quando non sono accompagnati da un progetto politico e da vasti consensi capaci di raccogliere e incanalare risorse collettive a livello nazionale, non danno i risultati sperati. Anzi debilitano e smorzano le risorse interne al sistema mettendo in modo meccanismi e reazioni non meno disgregativi che finiscono obiettivamente per ostacolare il processo di pacificazione, anche se le iniziali misure erano state concepite intraprese per fini "umanitari" o con obiettivi di sicurezza o di pace. Emarginazione giovanile e razzismo Chi sono gli skinheads italiani Giampaolo Cadalanu "Teppisti": otto lettere. "Naziskin": otto lettere. L'ingombro dei caratteri tipografici non dev'essere molto diverso. Eppure il secondo termine ha fatto quasi sparire il primo, incontrando un successo straordinario tra i titolisti di quotidiano (in genere propensi a scegliere le parole più corte). I gesti del razzismo italiano più o meno ordinario hanno così trovato un colpevole precotto, uscito dal buio dei nostri incubi peggiori e affacciatosi sulla ribalta con l'entusiastico accoglimento di stampa e tv. Gli articoli sulla legge "contro i naziskin" (definita "necessaria per fronteggiare l'ondata di razzismo", come se fossero termini omologhi) compaiono in pagina appena sotto i resoconti degli orrori tedeschi, da Hoyerswerda a Rostock a Molln. C'è una specie di gara all'intervista, dei leader bruni in Germania (che si fanno pagare, quindi ogni chiacchiera significa danaro nelle casse neonaziste) come dei "capetti" nostrani. Dalla logica dello scalpore discende poi la necessità di alimentare ogni leggenda, così che l'avvenimento scappa di mano a chi dovrebbe solo osservarlo e ne divora ogni scrupolo. In una rappresentazione poco articolata le gesta di un gruppo di giovani "borgatari" e le debolezze della repubblica di Weimar diventano parte dello stesso ragionamento. Il nuovo mito negativo, nutrito di risonanza sui media, cresce diligentemente e conquista nuovi spazi, sulle pagine ma anche nell'immaginario di massa. E questo succede anche nella percezione di soggetti sociali estremamente deboli. Fra sale-giochi e baretti di periferia, nel nostro paese esiste una vasta area di malcontento semisommerso, composta per la maggior parte da giovani delle classi più basse. Sono ragazzi che spesso hanno abbandonato la scuola senza trovare un inserimento stabile nel mondo lavorativo. La loro comprensione del vivere sociale passa attraverso strumenti culturali in genere abbastanza modesti, né la provenienza dalla classe lavoratrice garantisce le 6 basi di una qualche coscienza sociale. L'unica visione del mondo che viene loro proposta è mediata dai mezzi di comunicazione e fruita in modo acritico. In parole più semplici, molti di questi giovani non sono in grado di fare distinzioni fra "Dallas" e la realtà. Il confronto fra l'esperienza dei quartieri e il mito patinato succhiato dagli schermi tv o assorbito con l'inchiostro tipografico non può che produrre frustrazione e senso di estraneità. Ovvero personalità gracili, facile obiettivo per idee "forti" e slogan semplici e immediati. Si aggiunga l'abbandono delle periferie urbane e delle province, dove l'intervento sociale nelle aree più disgregate è lasciato al sacrificio di pochi volontari o a ciò che resta delle strutture cattoliche, e dove invece la presenza degli spacciatori è capillare e costante. Rimasti sulla porta della festa consumistica e oppressi dal1' idea di esserne ingiustamente esclusi, molti giovani e non più giovani vivono in modo drammatico la comparsa di nuovi soggetti sociali nel gradino appena inferiore al loro. Il contatto con culture straniere, a volte portatrici di manifestazioni difficilmente omologabili, ha un effetto devastante sugli equilibri degli strati sociali più sacrificati. Gli immigrati portano una minaccia insostenibile: la concorrenza per un posto nel grande banchetto. Per di più non ringraziano, magari per sopravvivere infrangono le leggi del paese che gli ha benevolmente aperto (o forse socchiuso?) le porte. Nasce un rancore sordo, pronto ad appigliarsi al minimo pretesto per far scattare la violenza. A fornire le "buone cause" ci pensa qualche gruppuscolo organizzato. Non si tratta di nostalgici qualsiasi: i capi delle nuove formazioni sono forse dotati di rudimentali strumenti teorici ma sanno muoversi con agilità in una dimensione comunicativa. Temuti o a volte derisi come aspiranti Adolf, sono in realtà dei piccoli Goebbels, capaci di gestire le pubbliche relazioni meglio di quanto i loro interlocutori con microfono o macchina

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