SAGGI/GAETA nella civiltà presente quanto vi è di oppressivo per l'uomo da quanto può concorrere a liberarlo [Riflessioni, pp. 126-128). Poiché nella nostra scienza vi sono "mirabili barlumi, parti limpide e luminose, procedimenti dello spirito perfettamente metodici", e così pure nella tecnica vi sono "germi di liberazione del lavoro", che potrebbero essere posti a fondamento di una società non oppressiva [Riflessioni, pp. 129-130), una società in cui la scienza non sia più ridotta a un gioco per gli scienziati e a un insieme di ricette per i tecnici" [Quaderni I, p. 116), ma in cui il pensiero riflesso abbia il massimo spazio nell'elaborazione metodica e nel lavoro. 4. Per una società giusta. Una situazione dunque durissima quella che emerge dalle Riflessioni, e tuttavia dominata da una forte volontà di comprensione razionale; quanto più il compito di concepire una società libera appare arduo, quanto più la sua realizzabilità seppure embrionale appare remota, tanto più sembra rafforzarsi in Simone Weil la certezza che dalla visione chiara della realtà sociale possano scaturire i germi di una convivenza amisura dell'uomo. Non ebbe torto Alain a parlare di questo saggio come di "Kant continuato"; poiché anche per Simone Weil si tratta di enucleare delle leggi, di definire dei limiti, non più della ragione, ma della società, quest'oggetto altrettanto misterioso per l'intelligenza, poiché "lo spirito umano è per natura incapace di pensare quel tutto di cui esso è una parte", anche se essa può enuclearne alcune leggi, a condizione di non mentirsi, di non sognare [Quaderni I, p. 379]. E tuttavia nelle Riflessioni vi è un peccato di illuminismo, che le amare esperienze degli anni immediatamente successivi alla sua stesura si incaricheranno di manifestare in tutta la sua gravità, fino a costringere Simone Weil a riconoscere che "la nozione di forza e non la nozione di bisogno costituisce la chiave che permette di leggere i fenomeni sociali" [Oppression et Liberté, p. 188). Siamo probabilmente nel '37; la citazione è tratta da Meditazione sul- ['obbedienza e la libertà, un breve, drammatico scritto che segna una svolta nel pensiero di Simone Weil. L'esperienza di fabbrica, la partecipazione alla guerra civile in Spagna, infine e soprattutto lo spettacolo agghiacciante di interi popoli sottoposti alla volontà assoluta di un solo uomo, fino a lasciarsi imporre la sofferenza e la morte, tutto questo la costringe a spostare l'asse del proprio pensiero sociale dal bisogno alla forza, vale a dire dalla ricerca dei limiti entro i quali a ciascuno è consentito esprimere liberamente la propria umanità, alla constatazione che in realtà è la forza a comandare la lotta politica, e la forza non riconosce altro limite che se stessa. Ne viene che l' individuo in quanto tale appare ora nella società, comunque organizzata, una nullità; ed è solo riconoscendosi tale, seppure senza esserne troppo cosciente, che esso può conservare la sua identità sociale. Poiché riconoscersi al contrario come individuo cosciente del proprio valore, che "vuole pensare, amare e trasferire in tutta purezza nell'azione politica ciò che il proprio spirito e il proprio cuore gli ispira" [ Oppression et Liberté, p. 192), significa opporsi all'ordine sociale, porre in esso i germi della corrosione, e dunque essere destinati alla solitudine e alladistruzione. La conclusione è delle più amare: "Da una simile situazione ogni uomo desideroso del bene pubblico ricava una lacerazione crudele e senza rimedio. Partecipare, anche da lontano, al gioco delle forze che muovono la storia non è possibile senza sporcarsi o senza 76 condannarsi in partenza alla disfatta. Né è possibile rifugiarsi nell'indifferenza o in una torre d'avorio se non si è del tutto incoscienti. [...] L'ordine sociale, benché necessario, è essenzialmente cattivo, qualunque esso sia" [Oppression etf--,iberté, p. 192193) . Simone Weil si trova così çlinuovo di fronte all'impossibilità; ma ora in una forma ben più radicale e umanamente senza via di uscita, poiché non può più appellarsi alla volontà eroica, al dovere di pensare, agire, battersi comunque malgrado l'evidente impossibilità di pervenire a un esito positivo. Se la forza domina comunque l'insieme della vita sociale, i bisogni degli individui appaiono esigenze risibili a meno di coniugarsi con la forza stessa. Occorre allora una strategia del tutto nuova, una strategia che definisca anche per la forza un limite invalicabile, altrimenti non resterebbe altro che la scelta del male minore, dei tentativi, più omeno destinati al fallimento, di porre un qualche limite alla violenza [Oppression et Liberté, pp. 192-193). In altri termini, come riconoscere che la forza è la sovrana regolatrice dei rapporti sociali e insieme rigettarla? Se le Riflessioni furono per Simone Weil l'equivalente della Critica della ragion pura, nel senso che ponevano le condizioni per un esercizio pieno e consapevole della volontà politica, la Meditazione del '37 finì con l'aprirle la via verso la Critica del giudizio, vale a dire verso il soprannaturale, mediante la conoscenza, in senso platonico, del bello e del bene. E possiamo ancora far ricorso a Kant per cogliere nel modo più semplice e diretto questo passaggio decisivo, ricordando il motto che conclude la Critica della ragion pratica, seppure riletto in termini platonici: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me". Il cielo stellato che incombe muto e indifferente su noi e le nostre sventure, si pensi alla poesiales Astres, non ha in sé nulla di casuale né di arbitrario, esso è puro ordine, pura necessità e quindi pura bellezza, in esso la forza è dominata da una persuasione saggia. "In questo mondo, si legge in una della pagine più belle de La prima radice, la forza bruta non è onnipotente. Per natura, essa è cieca e indeterminata. In questo mondo sonoonnipotenti la determinazione e il limite. L'eterna saggezza imprigiona questo universo in una rete, in una maglia di determinazioni. L'universo non vi si dibatte. La forza bruta della materia, che ci sembra onnipotente, non è, in realtà, se non perfetta ubbidienza. Questa è la garanzia accordata all'uomo, l'arca dell'alleanza, il patto, la promessa visibile e palpabile su questa terra, il fondamento certo della speranza. Questa è la verità che ci morde il cuore ogniqualvolta siamo sensibili alla bellezza del mondo. Questa è la verità che erompe con incomparabili accenti d'allegrezza nelle parti belle e pure dell'Antico Testamento, in Grecia nei pitagorici e in tutti i sapienti, in Cina nei testi di Lao-tse, nei libri sacri indù, nei frammenti egiziani. Essa si nasconde forse in innumerevoli miti e racconti. Essa ci comparirà dinanzi, sotto gli occhi, nella nostra stessa scienza, se un giorno, come Agar, Iddio vorrà dissigillarci gli occhi. (...) Non è la debolezza a servire docilmente la forza. E la forza, che è docile alla saggezza eterpa" [La prima radice, pp. 2532541. E al contrario nel cuore degli uomini che albergano la dismisura, lo squilibrio, il desiderio di avere di più, e tutto ciò che lo induce a scambiare per una legge dell'universo la propria volontà di potere. Un potere del tutto illusorio e tuttavia radicalmente iscritto nella nostra carne; dal quale possiamo liberarci solo nella misura in cui siamo tn grado di assumere consapevolmente la nostra realtà di
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