della verità non è neppure intesa. Nessuno sa, compresi i lettori e gli spettatori di Shakespeare da quattro secoli, che essi dicono la verità. Non delle verità satiriche o umoristiche, ma semplicemente la verità. Verità pure, senza mescolanza, luminose, profonde, essenziali". Qualcosa di straziante e insieme di patetico, quando conclude protestando contro il fatto che i suoi interlocutori si mascherano dietro l'elogio della sua intelligenza per evitare di porsi la domanda: "Dice il vero o no?" [Écrits de Londres, p. 256]. Ma chi, dal carismatico generale De Gaulle all'imbarazzatissimo amico Schumann, avrebbe potuto porsi una domanda che presuppone una sorta di conversione del concetto stesso di politica? Quel concetto così bene illustrato dal rimbrotto di Closon alla sua intelligentissima dipendente: "Ma perché non si occupa di cose pratiche!". Appunto, la politica è una faccenda pratica, e non certo in senso kantiano; una faccenda molto dura, molto concreta che poco o nulla ha a che fare con la verità, anche se si tratta della verità su ciò che va fatto per il bene di tutti. In altri termini, è luogo comune che l'esercizio della politica comporti comunque una quantità più o meno grande di menzogna; è la cosa sociale ad imporla, non ci si può sottrarre ad essa, si può solo gestirla a favore proprio e della propria parte. Dire la verità, non la verità in astratto, la verità dei filosofi a buon mercato, ma la verità in situazione, fu al contrario l'essenza stessa dell'agire politico per Simone Weil. La verità certo nella misura in cui uno spirito libero è in grado di rappresentarsela, ma in questa misura per intero e senza mescolanza di menzogna o di interesse particolare. In questo non c'è, mi sembra, nulla di rigoristico, di eccessivo o di temperamentale; è semplicemente un tutt'altro modo di concepire la politica, a partire dalla convinzione che la verità non sta scritta né in cielo né nella mente dei filosofi, ma sta scritta tutta nella condizione umana, e che dunque qui bisogna imparare a leggerla co~massimo rigore, e poi col massimo rigore e disinteresse bisogna metterla in pratica, per quanto è possibile, per il bene di ciascuno e di quanti più possibile. 2. La contraddizione e le strategie. Proviamo allora a vedere sotto quale forma la contraddizione si manifesta alla riflessione di Simone Weil, e quali furono le strategie da lei messe in atto, nel pensiero e nella vita, per farvi fronte. La contraddizione le si presenta sin dal!' inizio sotto la forma dell' impossibilità. Nel primo quaderno, scritto presumibilmente a partire dal 1933, ne troviamo una formulazione caratteristica: "Fare l'inventario o la critica della nostra civiltà, che vuol dire? Cercare di chiarire in modo preciso la trappola che ha fatto dell'uomo lo schiavo delle proprie creazioni. In che modo l'incoscienza si è infiltrata nel pensiero e nell'azione metodica. L'evasione nella vita selvaggia è una soluzione pigra. Ritrovare il patto originario tra lo spirito e il mondo attraverso la civiltà stessa in cui viviamo. Del resto è un compito impossibile da realizzare, a causa della brevità della vita umana e della impossibilità della collaborazione e della successione. Non è una ragione per non intraprenderlo. Tutti, anche i più giovani, siamo in una situazione analoga a quella di Socrate, quando attendeva la morte nella sua prigione e imparava a suonare la lira." [Quaderni I, pp. 158-159]. L'impossibilità è qui a un tempo biologica e storica: la vita umana è troppo breve di fronte alla durata di una impresa tanto complessa, inoltre mancano nell'attuale situazione le condizioni per la collaborazione di forze molteplici: scienziati, tecnici, operai, e per la trasmissione del loro lavoro alle IAGGI/GAnA nuove generazioni. Si lavorerebbe quindi a vuoto, come Socrate impegnato in uno studio che non gli sarà di alcuna utilità. E tuttavia nella misura in cui il compito appare allo spirito chiaramente indispensabile ed urgente, bisogna eseguirlo. Non per questo la contraddizione denunciata dall'impossibilità viene meno, al contrario essa resta intatta, ma in certo senso è vinta dalla volontà di aderire al compito sentito come obbligante. Ci troviamo di fronte ad una sorta di strategia del dovere, in cui la visione oggettiva di una realtà negativa e la volontà di porvi rimedio si fondono immediatamente, malgrado la consapevolezza dell'impossibilità di giungere ad una risoluzione positiva. Vedremo negli scritti ultimi l'esito trascendente di questa strategia e la sua ricaduta sull'azione; per ora essa si presenta come un invito ad anteporre il dovere dell'azione cosciente alla possibilità stessa di un risultato. Dunque un'azione gratuita richiesta dalla gravità della crisi, dall'immenso pericolo che sovrasta tutti: "la trappola che ha fatto dell'uomo lo schiavo delle proprie creazioni". Uomo, natura e società si trovano nella civiltà contemporanea in un rapporto tale da generare continuamente squilibrio ed oppressione: "L'uomo è schiavo finché tra l'azione e il suo effetto, tra Io sforzo e l'opera trova posto l'intervento di volontà estranee. Tale è il caso e per lo schiavo e per il padrone, al giorno d'oggi. L'uomo non è mai di fronte alle condizioni della propria attività. La società fa da schermo tra la natura e l'uomo" [Quaderni I, p. 129]. Si può allora essere presi come Faust dal desiderio di un rapporto diretto con la natura: "Potessi, o Natura, starti innanzi come uomo e null'altro,/ allora varrebbe la pena di essere un uomo!" [Quaderni /, pp. 132, 170]. Desiderio che tradotto nel linguaggio weiliano significa per ciascuno "comandare alla natura obbedendole", superando così l'antica maledizione del Genesi: "Guadagnerai il tuo pane con il sudore della tua fronte"; vale a dire passare da "necessità subita a necessità su cui si opera metodicamente" [Quaderni I, p. 132]. Ma proprio questo passaggio è reso impossibile dai processi socio-economici determinati nella civiltà moderna dal capitalismo. Sempre nel primo quaderno, sotto il titolo "Idea centrale", Simone Weil scrive: "Il capitalismo ha realizzato l'affrancamento della collettività umana rispetto alla natura. Ma questa collettività, in rapporto all'individuo, ha ereditato la funzione oppressiva esercitata un tempo dalla natura. Questo è vero anche materialmente. La collettività si è impadronita del fuoco, dell'acqua, ecc., ecc., di tutte quelle forze della natura 'che superano infinitamente le forze dell'uomo'. Problema: è possibile trasferire all'individuo questo affrancamento conquistato dalla società?" [Quaderni I, p. 133]. In questi termini la questione si pone evidentemente allo stesso modo per il modello socialista; quest'ultimo ha solo reso del tutto esplicito fino a farne un assioma il dominio della collettività sull'individuo. Mentre il modello capitalista ha lasciato un'illusione di libertà una libertà funzionale a se stesso: libertà d'impresa, di scambio, di opinione. Ha cioè avuto l'astuzia di rendere ~utti: schiavi e padroni, complici a diverso titolo di un'impresa d1 cm nessuno è in prima persona proprietario, dal mom7nto c~e ne~suno è in grado di controllarne effettivamente il meccarusmo; mfatu esso a sua volta, come un tempo per la natura, supera infinitamente le forze del singolo. Un'astuzia decisiva, visto l'esit? attu~~ dello scontro tra i due modelli, ma che non modifica 1 termiru della questione, semmai la aggrava nella misura in cui si accresce 73
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