Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

DI BAMBINI E DI MINORANZE Incontro con Stefano Benni a cura di Goffredo Fofi La compagnia dei Celestini vende bene e c'è da esserne contenti: assieme al Pasolini e al Caponnetto (e solo in parte alla Yoshimoto e in parte ancora più piccola al Bocca, libro-pretesto, voluminoso embrione di un libro da fare e da ragionare) è nella lista dei best-seller compilata dal "Corriere", l'opera di una persona molto perbene, ed è un bel libro. Forse è anche più di un bel libro. Forse è un bel libro perché non è solo un bel libro. Non sempre, in passato, Stefano Benni mi ha convinto. La sua ricerca mi è sembrata spesso zavorrata di "luoghi comuni" di una sinistra che tendeva a mostrarsi migliore di quanto non fosse, e che delle sue cose non migliori si compiaceva anche troppo. E mi pareva che la sua polemica fosse talora sfocata, e contribuisse a diffondere nuovi luoghi comuni invece che abbatterne; mi pareva che il suo humour fosse troppo dolce. Comici spaventati guerrieri era un buon libro, ma più "buono" che "bello": i buoni sentimenti e i nuovi luoghi comuni ne appesantivano l'invenzione, l'agilità narrativa. Su La compagnia dei Celestini le mie riserve sono molto minori, sono secondarie. All'interno dell'opera di Benni, mi sembra un grande salto, e più che un punto d'arrivo, una nuova partenza. Una specie di "opera prima" su un versante adulto, che non rifiuta nulla dell'anima sacrosantemente "infantile" di Benni, anzi la esalta. Lo schema del suo romanzo è quello della fuga, della ricerca e dell'appuntamento, dell'incontro-rivelazione finale. Gruppi di ragazzini (aborigeni, australiani, berlinesi, lapponi, africani, brasiliani, cinesi, dublinesi e naturalmente "gladoniani", cioè italiani) sono convocati dal "Gran Bastardo", figura mutevole che incarna un positivo vagante, latente, irrecuperato, non-reggimentabile e non-conformizzabile, a un campionato clandestino di pallastrada, cioè il normale gioco infantile prima del calcio-spettaèolo e della politica-spettacolo, prima della manipolazione. Noi seguiamo con Benni il percorso accidentato della squadretta gladoniana, fatta di "celestini", ospiti di un orfanotrofio neo-dickensiano e post-montypythoniano (come è forse tutto il romanzo). Ne succedono di tutti i tipi, prima del finale pirotecnico ed estremo: un finale che è sic et simpliciter, velocemente e senza fronzoli, la fine di tutto, la fine del nostro mondo. Non voglio insistere sulle "qualità letterarie" del romanzo. Mi sembra che Spinazzola e Ferroni abbiano detto su !'"Unità" quel che c'era da dire del linguaggio di Benni. Mi sembra più interessante soffermarsi su altri aspetti, non abbastanza discussi nelle recensioni che il libro ha sinora avuto. Soprattutto su alcune figure e alcuni luoghi che segnano la fuga e la ricerca, essenziali e davvero emblematici. Ci sono gli orfani, che sono orfani non a caso - cioè privi dei genitori, o privati dei genitori: anche di quelli, diciamo così, sessantottini (come nel bel film di Hartley Uomini semplici, Benni sembra averne abbastanza del "mito" della sua generazione, e come ha ragione!), e ci sono i loro amici e possibili tali, non solo gli altri ragazzini di altre parti del mondo, povero o, nel caso sia ricco, parte povera ed emarginata del mondo ricco, "orfani" come loro, ci sono anche altri bizzarri tipi di irregolari. Ci sono gli inseguitori, i "nemici", e sono significativamente educatori e preti (qui forse con una forzatura, poiché non si insiste nelle metamorfosi positive del Gran Bastardo sul ruolo di altri preti in altre pratiche educative), sono assessori rampanti (la "politica" al suo livello di immediato confronto con il "sociale"), sono Mussolardi il re della Tv e dello spettacolo e dunque anche della politica, e i tanti Finimoli giornalisti di servizio, scatenati e cinici manipolatori dei media dentro una precisa logica di potere. Eccetera, perché il libro è fitto di personaggi. (Oltre che nei Monty Python e in Brazil mi pare di poterne trovare un modello 38 Stefano Benni in uno foto di Marino Giordi !Effigie). diretto nel vecchio e geniale The Blues Brothers di Landis e Belushi. E non è una brutta filiazione!) Insomma, La compagnia dei Celestini' racconta il nostro paese e il nostro mondo, è senza alcun dubbio un romanzo su di noi, ed è un romanzo ambizioso, vasto, con livelli di lettura intrecciati e un linguaggio nostro contemporaneo. La struttura della fiaba, della quéte, del viaggio, della fuga, della caccia al tesoro, e il linguaggio del fumetto, del videogame, della canzone, dell'humour classico e dell'humour demenziale, si amalgamano e scorrono, e la mutevolezza delle situazioni è sempre necessitata, da una filigrana poetica-e-politica, non è mai gratuita. Ci sono cose in questo libro che non, mi convincono ancora (per questo ho parlato di "opera prima", o di libro di svolta), ci trovo qualcosa di troppo, un eccesso e a volte ancora qualcosa di troppo dolce e troppo esteriore. Benni è trascinato dalla sua fantasia narrativa e dalla sua sfrenatezza linguistica, ed è come se non volesse rinunciare a niente, finendo per sovraccaricare, per opprimere un po' la linearità esemplare dei percorsi e delle creature con la sua vorace ridondanza. Non sa limitarsi e non sa,

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