CONFRONTI Waters, Howlin 'Wolf, Bo Diddley e Chuck Berry non potrebbero mai essere; intenso, diretto ed esplicito dove le star della Motown sembravano gelide e distanti; spontaneo come Otis Redding e coloritamente surreale come i Beatles. I Rolling Stones hanno dimostrato, con arte e ironia, di conoscere profondamente (da veri aficionados) la musica nera e di essere consapevoli della distanza che li separava da quei mondi dell'esperienza nascosta che essa conteneva: Hendrix non riconosceva barriere di questo genere. Stava sovvertendo sia i codici neri nei quali era cresciuto sia la British Invasion che aveva adattato quei codici ai suoi fini". Per smentire "l'idea che (Hendrix) fosse soltanto una meteora urlante nel cielo, un mostro favoloso la cui musica sgorgava dal nulla e andava nel nulla, priva di antenati e discendenza", Murray comincia mostrando quanto profondamente Hendrix fosse impregnato di cultura blues e quanto la padroneggiasse (Hendrix "si è fatto le ossa con il blues. I suoi istinti più fondamentalmente musicali erano quelli di un bluesman"). Al confronto di Hendrix con i grandi personaggi del blues si affianca l'impietosa indicazione di quello che faceva la differenza tra lui e i suoi colleghi del blues bianco, e anche qui in ballo c'è l'autenticità e lo spessore emotivo: Hendrix era superiore a loro "non semplicemente perché era un nero americano, ma perché aveva vissuto come un nero piuttosto che stare semplicemente a immaginare di esserlo, come facevano gli inglesi", perché si era trovato a vivere "come un vagabondo con la sua chitarra, come i bluesmen country degli anni Trenta, e, come loro, aveva suonato quaisiasi tipo di musica purché lo si pagasse". Purtroppo, conclude Murray, nel complesso "il campo del blues non è stato in grado di rispondere alle sfide che Hendrix aveva lanciato. Fu il primo e l'ultimo bluesman dell'era spaziale (...), l'unico a proporre nuovi modi di creare all'interno del blues piuttosto che rubare i suoi tesori per riporli altrove". Con la stessa dovizia di pezze d'appoggio Murray illustra poi lo stretto legame di Hendrix con il soul: la sua musica non avrebbe potuto esistere "senza la musica soul, e la moderna musica soul sarebbe stata inconcepibile senza la sua". Quella per esempio dei Funkadelic di George Clinton, azzarda Murray, assomiglia probabilmente alla musica che Hendrix avrebbe prodotto se fosse vissuto a sufficienza. Con questa ipotesi Murray comincia a delineare una sorta di universo hendrixiano contemporaneo, che, si scopre andando verso la fine del volume, è popolato soprattutto da personaggi di matrice jazzistica, cosa che forse sorprenderà qualche fan del rock. Per i jazzofili che non abbiano ancora maturato la convinzione, secondo Murray un'originale formulazione di Hendrix, che jazz, blues, rock e soul altro non sono che "differenti prospettive della stessa musica", sarà istruttiva invece la lettura non soltanto del capitolo specificamente dedicato al rapporto di Hendrix col jazz, ma dell'intero libro, nel quale non è solo un nome come quello di fohn Coltrane a ricorrere con una certa frequenza: "tra i primissimi suoni ascoltati da Jimi Hendrix", serive per esempio Murray, "e' erano le big band degli anni Quaranta. Suo padre, Al Hendrix, era stato in gioventù un affermato ballerino jazz e Jimi era cresciuto con la sezione fiati della band di Duke Ellington nelle orecchie". Guarda caso, segnala Murray, gli effetti ottenuti con la sordina dalle trombe e dai tromboni di Ellington era simile ad un "wah wah". Scorrendo le pagine si troveranno anche Elvin Jones, fonte di ispirazione per il batterista Mitch Mitchell, Jimi che con Brian Jones frequenta i jazz club di Londra, le famose collaborazioni mancate con Gil Evans e con Miles Davis, il fascino esercitato su Hendrix da Roland Kirk e l'influenza forse via Greenwich Villag~, di_Omette Coleman, Ceci! Tayl~r. Charlie Mingus, Sun Ra; e via d1questo passo. Molto interessante poi il ragionamento 20 che Murray articola in rapporto ad Hendrix, sulla parabola della chitarra jazz dopo la rivoluzione portata nell'uso dello strumento da Charlie Christian all'altezza del bop. Eccezionalmente lucida infine l'individuazione dei personaggi di area jazzistica in cui Murray, che senza mezzi termini stronca invece con estrema correttezza lafusion che prese le mosse da Miles Davis, pare riconoscere il grosso dell'eredità di Hendrix. Miles Davis stesso, nella cui musica degli anni Settanta e oltre il fantasma del chitarrista si agita tanto produttivamente; il freefunk varato da Omette Coleman e sviluppato anche da suoi collaboratori come il batterista Ronald Shannon Jackson e il chitarrista James Blood Ulmer; Vemon Reid, che dalla scuola dei Decoding Society di Jackson ha poi continuato con il black rock dei Living Colour; Sonny Sharrock, esempio più unico che raro di chitarrista free, attivo, indipendentemente da Hendrix, già negli ultimi anni della carriera di Jimi e a lui noto, e tirato fuori dal dimenticatoio con la sua partecipazione al quartetto Last Exit, con Ronald Shannon Jackson alla batteria; e persino l'eccellente quanto misconosciuto trio Power Tools, ancora con Jackson e con il bianco Bill Frisell alla chitarra. I riferimenti sono perfetti e ci sono tutti. Puntuale anche l'osservazione che solo negli anni Ottanta l'influenza di Hendrix sul jazz ha cominciato a dispiegarsi veramente. A testimonianza, aggiungiamo noi, di un bisogno di Hendrix che col trascorrere del tempo anziché scemare si è fatto sentire con un'urgenza sempre più ineludibile e profonda. Jimi Hendrix !archivio Arcano).
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