Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

CONFRONTI "guardie rosse" a Torino è assiepato intorno ad una bandiera, con pistole e fucili messi in compiaciuta evidenza: non una forza interiore si cerca di mostrare, ma quella incerta e volgare delle armi. Bellissima è, invece, una fotografia del 1921. Un gruppo di giovani comunisti è disposto in due file: sei in piedi e cinque seduti. Al centro di questi ultimi, uno ha la fisarmonica fra le braccia e sulle ginocchia. Hanno tutti intorno a vent'anni, il vestito da festa e il fazzoletto che spunta dal taschino. Più prossima all'obiettivo una terza fila: dieci cappelli allineati per terra. C'è in questa immagine, evidentissimo, un rigore formale che si fa tutt'uno con la compostezza del gruppo. Tanto da far risultare perfettamente riuscito l'intento dei fotografati: mostrarsi in una bellezza che risultasse collegabile alla loro aspirazione politica. Una bellezza che tende alla leggerezza e al divertimento: vale a dire, a ciò che nella vita quotidiana i fotografati non trovano, ma che sentivano di meritarsi e di poter in qualche modo conquistare. Per questo si sono messi il fazzoletto nel taschino e hanno portato la fisarmonica, che non è soltanto il centro visivo di quest'immagine, ma anche e soprattutto il suo centro ideale. È uno di quei segni fondamentali che il proletariato introduceva nelle fotografie• di quegli anni. Facciamo un altro esempio. Prendiamo un'immagine eseguita (anch'essa agli inizi degli anni Venti) nella vetreria Barovier di Murano. Dal punto di vista strettamente fotografico siamo di fronte ad una immagine che si presenta ricca di movimento eppure compositivamente rigorosa. La foto riprende insieme i proletari e i lavoratori della fornace in una pausa del lavoro. Lo sguardo dell'uomo che sta di profilo, in piedi al centro, in camicia bianca e cravatta e che forse è il padrone più anziano, è rivolto a qualcosa che sta avvenendo fuori dell'angolo di ripresa dell'obiettivo. Più in basso, accanto, un altro uomo che non sembra essere un operaio guarda nella stessa direzione. I loro sguardi mostrano disattenzione per questa foto- .ricordo. Tutti gli altri guardano in macchina. Soltanto un veriero, alla destra dell'inquadratura, non guarda in macchina e legge il giornale. Ma questa che potrebbe sembrare una noncuranza per la fotografia è invece un volerle attribuire una particolarissima attenzione. Che cosa voleva dire, infatti, in quegli anni, per un operaio, lasciarsi riprendere in un momento di lettura? Era mettere in evidenza una capacità e un bisogno che, come spesso sottolineava Gramsci, costituiva una grande arma politica. In quell'apparente disattenzione verso l'esecuzione della foto c'è dunque un consegnarle un messaggio particolare, un attribuirle un significato importante. In questo giornale, come nella fisarmonica, è sottolineata un'aspirazione che era purtroppo in mano d'altri. E cioè nelle mani di quegli stessi piccoli burocrati o intellettuali che nessuna importanza hanno mai attribuito a queste fotografie. Ora che il sogno del socialismo è tramontato, senza che sia tramontato quello della giustizia, ci auguriamo che queste fotografie vengano più diligentemente raccolte e studiate. Perché esse costituiscono un archivio straordinario, dentro il quale la sinistra non ha saputo leggere. Tanto che, anche quando ha voluto raccontare la propria storia attraverso le immagini, non ha saputo partire da esse e si è limitata a fare della fotografia un semplice corollario. Lasfida di JimiHendrix Marcello Lorrai Pubblicati in inglese intorno al ventennale della morte di Jimi Hendrix (18 settembre 1970), due importanti libri su una delle figure cruciali della vicenda musicale contemporanea sono ora usciti in edizione italiana approfittando·di un altro anniversario, il cinquantesimo della nascita del grande chitarrista (27 novembre 1942). limi Hendrix. Unafoschia rosso porpora, di Harry Shapiro e Caesar Glebbeek (Arcana, 750 pp., lire 38.000), è un monumentale contributo che ad una puntigliosa ricostruzione biografica, corredata persino da un maniacale albero genealogico, aggiunge una meticolosa discografia, senza trascurare una disamina minuziosa degli strumenti, amplificatori ed effetti utilizzati da Hendrix, a cui dedica una sezione speciale. Una lettura da accompagnare a quella di limi Hendrix. Una chitarra per il secolo, di Charles Shaar Murray (Feltrinelli, 260 pp., lire 36.000), che, fatto già di per sé non comune in un campo in cui è la mitologia a prevalere, si è concentrato sul mondo musicale di Hendrix con una serrata indagine, per vari motivi insolita e per diversi aspetti esemplare (peccato per le evidenti magagne della traduzione), su cui vale la pena di soffermarsi. Il punto di partenza di Murray, che si muove del tutto a proprio agio ma anche senza ingenuità nella cultura giovanile angloamericana degli anni Sessanta, è dato da una duplice insofferenza. Da una parte verso quella enfatizzazione della individualità di Hendrix che al di là delle apparenze mistiche si riv~la in realtà una sua riduzione al rango di episodio eccezionale, senza puntate precedenti e senza seguito: una "splendida aberrazione", insomma, di "dimensioni così intimidatorie che la sua musica sopravvive in solitaria maestà; una magnifica irrilevanza si profila in cima a un piedistallo". Dall'altra verso l'adozione di Hendrix nella famiglia del rock bianco, ideologizzata con affermazioni come "Hendrix non era bianco o nero. Hendrix era Hendrix", e resa possibile dallo stereotipo per cui una musica assimilata all'hard rock non è prerogativa di un musicista nero (ancora in anni recentissimi il gruppo nero dei Living Colour ha dovuto superare non pochi ostacoli per affermare il proprio diritto di amare i Led Zeppeline di praticare terreni musicali che l'apartheid discografico continua a ritenere riservati ai musicisti bianchi). Operazioni complementari, che hanno congiurato ad estrapolare Hendrix dalla cultura nera alla quale legittimamente appartiene trasferendone "come per magia" il genio "dalla pagina nera del libro mastro a quell~ bianca". In gioco però c'è qualcosa di più di una questione_d1 corretta attribuzione di un'esperienza artistica ad un ambito piuttosto che ad un altro: la ricontestualizzazione di Hendrix si intreccia non casualmente con l'enunciazione di giudizi di valore ai quali il fan rock non è troppo abituato dalla critf~a a cui ~a riferimento: "la sua musica", scrive Murray, "aveva 1 imprevedibile avventurosità e il sovraccarico sensoriale che io adoravonel chiassoso e bizzarro rock di quei tempi immediatamente pre: psichedelici, ma era altresì carico di quella solida umanitàe. di quella autenticità emotiva che io avevo trovato ~ol~ nella musica soul e blues. Hendrix era enormemente e donch1sc1ottescamente se stesso; era tutto quello che i Townshend e i Mayall, i Jagger ~ i Clapton avevano solo preteso di essere. Allo stes~o te?1po egli sembrava contemporaneo e moderno in un modo m cui Muddy

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