Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

CONFRONTI Liberamente, nel ritratto, ci offriamo interamente allo sguardo degli altri. Attraverso l'immobilità della fotografia ci consegnamo ali' indagine. Ognuno potrà guardarci - senza imbarazzo - fisso negli occhi, cercare fra le pieghe del nostro sorriso e fra le nostre rughe. In questo senso il ritratto è un rendersi prossimi agli altri: anche quando la vanità e il sussiego sembrano dire diversamente. Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, il proletariato di fabbrica - in cui si trovava la parte più politicizzata delle masse lavoratrici - nel suo casuale incontro con la fotografia, intuisce questa forza del ritratto fotografico. In quel periodo, per celebrare la potenza economica, i proletari.avevano assunto l'abitudine di fare riprendere i loro opifici. Il più delle volte sono vedute d'interni, con gli operai fermi davanti alle macchine; più raramente, invece, l'immagine è ripresa ali' esterno, con gli stessi proletari che posano insieme agli operai, assiepatissimi, davanti alla grande scritta col nome del1'azienda. Di fronte ali' infrequente presenza della macchina fotografica, dalla quale si sa scaturirà una precisa testimonianza, i proletari avvertono la necessità di mostrarsi nella migliore maniera possibile. E nel compiere questo tentativo, viene a loro in soccorso la posa. Gruppo di giovani comunisti del basso Verbano, 1921. Foto di Alias & De Righetti, Arona. Archivio fotografico dell'Istituto Storico della Resistenzadi Novara. 18 Nella posa ognuno trattiene il respiro e, secondo l'inclinazione del proprio animo, si fa serio o sorride: in quell'atto raccoglie tutto ciò che ritiene sia il proprio essere e lo mostra nell'espressione del viso. Cosicché ciascun operaio è una storia particolare dentro il destino comune di una classe. Il tempo della posa viene dal fotografo percepito come un tempo simbolico, dentro il quale si colloca la ricerca dell'io. La posa, strappando l'operaio fotografato al tempo della produzione e dei rapporti sociali lo pone di fronte a un tempo interiore: in uno iato egli cessa di essere forza lavoro e si avverte come valore in sé. In questo mostrarsi fotografico del proletariato il fotografo, al di là del semplice scatto, non ha alcuna funzione attiva: aspetta che i fotografati si compongano, e preme il "bottone". Queste immagini, dunque, possiamo definirle autoritratti. Per la prima e forse l'ultima volta, nella storia della fotografia viene così ad aversi un autoritratto corale. Attraverso questa coralità i proletari divengono fotografi di se stessi: in se stessi trovano il loro Nadar. E ciò mentre il dilagare della fotografia faceva registrare un numero elevatissimo di pessimi ritrattisti, ai quali quotidianamente si consegnavano migliaia di piccoli borghesi. Ma in questa ritrattistica corale non ci furono solo bellissime immagini, vale a dire fotografie in cui le ragioni umane e storiche dei fotografati si presentano pacificamente e compostamente. Ci furono anche (e spesso) fotografie del tutto opposte. Mentre scrivo questa nota ne ho davanti una: è il 1920; un gruppo di

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