I.CONFRONTI I contorni del prato, che a destra sale a formare un piccolo rilievo (...) . Tutto intorno si stende, come una luce diffusa su di un paesaggio ...". La cecità non comporta solo un mutamento delle strutture cognitive ma anche una rielaborazione della propria immagine sociale: Hull è costretto a fare i conti con la tradizione culturale della figura del non vedente: "la cecità è assimilata all'ignoranza, alla confusione e alla mancanza di consapevolezza. Forse la mia immaginazione lavora sotto l'influsso di queste associazioni; forse la concretezza della mia cecità ha ridestato in me l' archetipo della cecità". Queste riflessioni provocano in Hull stati di depressione, o addirittura di panico: "Non si può chinare la testa e vedere la continuità rassicurante della propria coscienza nelle forme del corpo; non si può muovere un piede, guardarlo e dire: ti vedo, io sono qui. Non c'è nessun prolungamento della coscienza di sé nello spazio. Quindi io non sono nient'altro che puro spirito, e in quanto tale potrei essere ovunque. Sto acquistando il dono dell'ubiquità: il luogo in cui mi trovo diventa un fatto di semplice minor conto. Tendo alla dissoluzione". A questo smarrimento, a questa percezione del limite, a questo senso di non essere Hull risponde con la ricerca di un antidoto. Si tratta di contrapporre all'archetipo negativo della cecità un'idea di forza. Questa idea di forza non mi pare vada cercata in questa o quella risposta determinata ma nel libro nel suo complesso. Infatti, nell'esperienza di Hull, lo sforzo di cercare l'antidoto è già in sé un antidoto. Tahar Ben Jelloun nel suo romanzo Notte fatale ha scritto: "La cecità non è una menomazione( ...). Certo che lo è, ma cessa di esserlo per chi ci sa giocare. Giocare non è ingannare, ma rivelare le virtù dell'oscurità". Il dono oscuro è il racconto del tirocinio di Hull verso la comprensione del gioco dell'oscurità, un gioco che consiste nel reinventare le regole del significare. Il vedente gioca prevalentemente con le immagini mute e lontane percepite dall'occhio; il cieco gioca con altre immagini: fruscii, cigolii, scabrosità e morbidezze delle cose. Grazie al gioco dell'oscurità si può scoprire che il linguaggio nasconde un altro mondo, un'altra nicchia semantica che coesiste col mondo della luce. O forse è meglio dire che la cecità è un altro punto di vista sulle cose. Hull nel dipanare la sua esperienza di cieco prende coscienza, e spesso con angoscia, che le regole del conoscere dei vedenti, che gli erano abituali fino a poco prima, sono inutilizzabili. Ma nello stesso tempo, viene via via scoprendo un nuovo paesaggio di segni; un paesaggio senza colori e senza orizzonte; un paesaggio di contesti architettonici sonori, tattili, olfattivi e gustativi che si articolano secondo geografie percettive in cui non è solo. o in prevalenza, un organo la fonte delle informazioni: non l'occhio, ma tutto il corpo. Questa particolare sfera percettiva porta l'autore del Dono oscuro a considerare il carattere originale del contesto comunicativo fra il cieco e il vedente. La comunicazione sostenuta dalla vista è ricca di segnalazioni ridondanti fomite dal contesto, che permettono ai dialoganti di semplificare la comprensione del messaggio. La comunicazione fra un cieco e un vedente, invece, è povera di éontesti e per questo il valore del messaggio può assumere più significati. Inventare contesti comunicativi non visivi, produrre messaggi "al buio" è un aspetto importante della comunicazione cieco-vedente. Il linguaggio così si apre a nuove possibilità, esplora nuove modalità espressive, rivaluta le tenebre contro l'imperialismo della luce, e rompe i cerchi gerarchici della comunicazione visiva. Mi pare sia questo il segreto per cui la cecità può essere un "dono oscuro". Diecica'-pellie una fisarmonica. Fotograf1a,ritratto e proletariato all'inizio del Novecento Diego Mormorio . Parlare oggi, in questa fase storica, dei segni lasciati dal proletariato nelle fotografie ci espone forse al rischio fastidioso di essere definiti inattuali (in un senso non nicciano). Ma corriamo pure questo rischio: senza nessuna nostalgia per il passato e, al tempo stesso, senzà intravvedere alcuna speranza per il futuro. (Vale a dire: lo affrontiamo a partire dalla convinzione che la caduta del comunismo ha segnato la fine di un terrore difficilmente eguagliabile e con l'amara constatazione che non c'è nell'aria niente di buono, a cominciare dall'aria). Dunque, il proletariato e la fotografia, dicevamo. O più precisamente: il proletariato e il nucleo fondamentale della fotografia, il ritratto. Partiamo da una frase di Martin Heidegger: "Ogni posare è di per se stesso raccogliente, è un mettere al riparo". Niente, dunque, è forse più importante di posare davanti alla macchina fotografica. In quegli attimi, infatti, il fotografato tenta di mettere al riparo dal dissolvimento dell'essere il proprio io. In due parole: non sa di rimanere. Sa che non ha altra possibilità di questa: la fotografia. Perché se tutte le cose, come dice il nichilismo dell'Occidente, sono un fugace passaggio, del quale forse non rimarrà che un ricordo, una fotografia è tutto l'essere futuro di una cosa. Sicché il fotografato cerca di portare in superficie tutto il suo sentire, di rendere evidente la sua storia di uomo. Ed è per questa ragion~ che ogni ritratto è affascinante. È, al tempo stesso, un mistero disvelato e un mistero da disvelare. Più precisamente: il fascino che vi è in ogni ritratto nasce da questa domanda: "quale destino c'è dentro questa fotografia?". Perché ogni ritratto è inevitabilmente e segnatamente il luogo in cui si racchiude il destino di un Uomo. In ogni ritratto è detto tutto, senza che nulla sia detto chiaramente. Così ognuno vedrà secondo la propria capacità di penetrazione. E alcuni potranno non vedere nulla, perché la lettura delle immagini avviene soprattutto per folgorazioni, richiede una particolare formazione dell'io. Pur essendo per altro straordinariamente intelligenti e penetranti, alcuni non riusciranno mai a penetrare il mistero che vi è in una fotografia. Il tempo della posa necessario al ritratto è fra i pochissimi momenti in cui l'uomo occidentale sfugge al vizio che segna la sua vita e che è perfettamente definito in queste parole di Pascal: "Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente sono i nostri mezzi· soltanto l'avvenire è il nostro scopo. Per questo, non viviamo ~ai, ma speriamo di vivere;~• dispone~doci SC:?,1Pre a essere felici è inevitabile che non lo diverremo giammai • Nel temp~ della posa ognuno vive interamente il prop~oio. Lo scopo - il desiderio di rimanere- è tutt'uno con lacosc1e~ di esistere. La volontà non cerca di sfuggire al tempo,ma s1 esprime attraverso l'attimo. "Sono qui e vorrei restarci"s,embrano dire le labbra di ogni ritratto.
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