si insegnava nelle università della repubblica democratica italiana quindici anni dopo il processo di Norimberga. Era un caso estremo? Non lo credo. E comunque nel mio caso contribuì in modo determinate a farmi abbracciare l'ipotesi rivoluzionaria. 3. Vengo così al punto 2 che mi sembra il più importante nella discussione sull'Italia di oggi. È difficile non essere d'accordo con te sull'appello "alla Legge contro ogni tipo di prepotenza, di arcaismi, di particolarismi che colpiscono inevitabilmente i più deboli". Ma non sono affatto sicuro che la tradizione giuridica formalista dello stato liberale italiano, che sopravvive in buona parte dell'attuale amministrazione pubblica, ci sia di molto aiuto in questa ricerca. La cultura liberale del diritto amministrativo si costituì, alla fine del secolo scorso, in opposizione alla tradizione giuspubblicistica ottocentesca, come una cultura statalista, autoritaria, votata alla conservazione dello stato più che alla tutela dei cittadini. Alla scuola di questa scienza astratta del diritto si formarono intere generazioni di funzionari che poterono interpretare il rispetto formale della legge come irresponsabilità, indifferenza per i risultati e per i tempi delle loro azioni e soprattutto come autoprotezione. lo non vedo una netta contrapposizione tra la "cultura della legge" dei funzionari pubblici e la "cultura della politica", introdotta dal fascismo e poi ripresa dai partiti antifascisti nel dopoguerra. I due fenomeni mi paiono piuttosto complementari. Il primato della politica (del particolarismo, della discrezionalità, dell'opportunità) è stato obiettivamente alimentato dalla rigidità formale e dall'irresponsabilità sociale di quella classe burocratica. L'aggiramento dell'amministrazione attraverso l'istituzione di canali paralleli più flessibili, che è una costante della storia amministrativa italiana, non è solo spiegabile in termini di prevaricazione politica. E' anche il tentativo di superare le resistenze corporative del ceto burocratico e di offrire servizi sociali che la cultura giuridica dominante non era disposta a prendere in considerazione. In altri paesi europei l'amministrazione statale ha retto meglio perché era sostenuta da una cultura giuridica più solida (di cui noi imitavamo solo gli aspetti esteriori, spesso distorcendoli), che era a sua volta irrobustita da saperi (e etiche) tecnico-professionali. La battaglia del fascismo contro la burocrazia, che tu documenti nel tno libro, presenta alcuni aspetti tipici di quell'impegno tecnocratico modernizzante che ritroviamo più volte nella vicenda amministrativa italiana. Per esempio nel centro-sinistra o con la nascita delle regioni. Nessuna di quelle battaglie ha avuto pieno successo. Nell' amministrazione italiana si è piuttosto innescata una spirale perversa: si è cercato di eliminare gli abusi con norme più severe e, con questo, si sono rese necessarie nuove scappatoie e nuovi abusi. Abbiamo insomma viaggiato tra la Scilla del formalismo statalistico e la Cariddi dello statalismo partitocratico-particolaristico. Non si può ritornare al primo, senza cadere inevitabilmente nelle braccia del secondo. Né si può rimpiangere il cemento offerto dalla partitocrazia: esso già oggi alimenta ogni genere di mafie. Avremmo invece bisogno di nuove istituzioni meno assolute (il famoso Stato con la S maiuscola, di liberale memoria) e nello stesso tempo meno plasmabili dagli interessi contingenti. Sembra un progetto irrealistico. Ma se guardiamo con occhi attenti ai luogh~ dove vengono progettati e erogati i servizi pubblici, possiamo incontrare brandelli (consistenti) di culture amministrative non identificabili né con il formalismo burocratiILCONTISTO co né con il cinismo dell'arte di arrangiarsi (ed è poi il motivoper cui lo sfascio di cui tanto si parla, in realtà non è così generalizzato). Si tratta di esperienze difficili da valorizzare. Ma in tempi di crisi acuta come questi, non sono impossibili improvvise aperture. Grazie ancora per la tua lettera (non capita spesso l'occasione per una discussione epistolare!).· Ti abbraccio * * * Roma, 11.12.'92 Caro Luigi, due sole battute di risposta. 1.Converrai certo con me che si è sempre figli dei propri padri, anche quando ci si ribella! Anzi, soprattutto allora. È questo il senso di quel titolo (La generazione dei padri) dato a una introduzione (per un libro di storia del fascismo) che inizia partendo dal '68 e che si chiude chiarendo quanto tu stesso tieni a ribadire e cioè che la rivolta si attuò in nome dei valori che quei padri ci avevano trasmesso ma che ci sembrava non incarnassero più (e che io definirei "la sostanza della Norma"). Per cui non mi è più del tutto chiara la materia del contendere, visto che a me sembra scarsamente contestabile l'interrogativo (da cui ho preso le mosse) rappresentato dal dato sociologico di fondo: i ribelli del '68 erano figli di piccoli-borghesi e non della classe operaia. Assodato questo punto, era naturale chiedersi se in quel "dato" sociologico ci fosse qualche elemento culturale attinente alla nostra storia nazionale su cui riflettere oggi, allorché siamo noi stessi padri e madri di figli ben diversamente ribelli. 2. In quest'ottica l'interrogativo sull'elemento culturale piccolo-borghese si legittima in quanto corollario della premessa sociologica e per la stessa ragione non verte sui contenuti degli slogan ma sulla rete e le modalità della loro diffusione. A questo proposito, il mio parere è che quegli studenti di Pisa o Torino non riflettessero affatto "la geografia della resistenza antifascista e della modernizzazione", come tu affermi, ma che semplicemente fossero in genere figli di impiegati precedentemente immigrati o urbanizzati (ed è quanto si vuole dimostrare nei noiosi grafici del mio libro). I contenuti vengono dopo e anche qui probabilmente divergiamo. lo credo che questi siano stati cercati da noi giovani a posteriori nei pezzi di cultura "critica" allora disponibili - il marxismo, l'antifascismo, la musica rock-, non trovati bell'e pronti nelle proprie famiglie, che solo in rari casi, ripeto, erano operaie, antifasciste e deluse del comunismo ufficiale ... (Non così sarà nel '77). Perché furono cercati? C'era qualcosa nella cultura dei padri che ci spingeva a cercarli sotto la pressione dei grandi sommovi: menti sociologici degli anni '60? E, di nuovo, di quella ~ul~ra ~ interessano meno i contenuti (oggetto di altri interessanti d1battib, a cui tu fai cenno, sulla specifica tradizione giuridica ~az.ionale) e di più il carattere modernizzante e nazionalizzante _i~sito?el1' espandersi territoriale e sociologico dello Stato ammirustrativo. Qui stanno le ragioni della mia c_uri~sità JM:T u? ~assato (la cultura nazionale piccolo-borghese) d1cm, vorrei chia.fll:, non ho alcuna nostalgia, ma che semplicemente non può essere ignorato nella ricostruzione "genealogica" di un presente ~!o problematico ma forse così rischio davvero, come tu osservi, di annullare la spe~ificità del nostro passato prossimo, ~i~ ~• '68. Sarà inevitabile discuterne ancora, a partire da altn libn ..
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