IL CONTESTO cittadini nella vita democratica, hanno anche sostituito il precedente partito fascista nel fungere da raccordo tra centro e periferia, tra Stato e cittadini; laddove negli altri paesi questa funzione era svolta dall'amministrazione, in obbedienza alla Norma e non al Partito. Questa è la ragione per cui oggi la rivolta contro la partitocrazia rischia di travolgere la stessa unità nazionale intesa come accettazione da parte dei cittadini di una Norma unica (per es. il Fisco), comunemente condivisa e impersonata dall'amministrazione pubblica. I rischi sono immensi, perché l'alternativa ai partiti non sono i movimenti, ma le mafie e gli interessi più forti: come dire, dalla padella nella brace! 3. - Il '68 sarebbe stato sostanzialista e quindi incompatibile con questa cultura burocratico-formalistica. Ammetto che mi troverei in difficoltà a dover difendere il formalismo burocratico contro cui si sono scagliate generazioni di intellettuali, soprattutto, non a caso, meridionali. Ma, devo dire la verità, proprio l'esperienza e la riflessione sul '68 e il dopo '68 mi spingono ad essere piuttosto cauta sul sostanzialismo di allora. L'appello al sostanzialismo ha connotato tutti i movimenti, anche quello fascista della prima fase, non dimentichiamolo, e l'episodio del pretore di Melfi (l'assoluzione del "confinato" Eugenio Colami dalle accuse e dalla condanna del potente Federale) che io cito è l'esempio più convincente che la difesa della libertà passa sempre per l'appello alla Legge, anche nelle retrovie. Dunque è sulla Legge (intesa come ldealtipo ), la sua diffusione e la sua riforma, che occorre impegnarsi - soprattutto oggi - contro ogni tipo di prepotenza, di arcaismi, di particolarismi, che colpiscono inevitabilmente i più deboli. Quanto ai localismi, anche qui, come ho detto, non avrei molte illusioni e la combinazione di localismo e di sostanzialismo francamente mi fa ancora più paura. Mi domando se il mio modo di ragionare ti sembrerà ancora così "sorprendente" e dove stiano semmai le ragioni del mio diverso approccio. Forse perché autobiograficamente sono un misto tipicamente italiano di nord e sud, di provincialismo e cosmopolitismo, di burocrazia meridionale e di Padania, e, soprattutto, direbbero le mie arniche, sono "una donna" (quindi, storicamente più attenta alle ragioni dei più deboli?) Oppure perché studiando la rivoluzione francese anni fa mi sono imbattuta in Tocqueville? Rimane ii' fatto che, come avrai capito, per questi terni nutro una vera passione, almeno pari a quella che mi spinge a discutere con gli amici della "mia generazione" che hanno disponibilità a farlo. E di questo ti ringrazio ancora. * * * Torino, 1 ° dicembre 1992 Cara Mariuccia, i terni che tu affronti appassionano molto anche me e vorrei cercare di chiarire i termini del nostro disaccordo, seguendo i tuoi tre punti. 1. Non se il 1968 sia stato così diffuso in Italia e così concentrato altrove. Ricordo, nell'estate di quell'anno, un viaggio entusiasmante negli Stati Uniti, da costa a costa, dove in ogni campus trovavamo gruppi, giornali, intervento sociale, controinformazione, battaglie per i diritti civili, stili di vita comunitari, in una rete multiforme e "senza testa" che non smetteva di stupirci. Mi sembra invece che in Italia il '68 sia esistito solo o in prevalenza nel centro-nord. Ho parlato di Palermo nella recensione, ma solo per riprendere la tua citazione. In realtà non credo che 12 Palermo abbia veramente preso parte al movimento. E forse neppure Napoli. Il Sud è diventato importante dopo, ma soprattutto per effetto dell'iniziativa di militanti veneti, toscani e piemontesi che con l'aiuto di studenti e operai meridionali emigrati al nord e con qualche aggancio con gruppi minoritari locali di matrice pre-sessantottesca hanno impiantato propaggini del movimento e poi dei gruppi politici extraparlamentari. L'"andata al sud" fu un fenomeno di grande portata, ma segnalava nel contempo uno squilibrio. In questo senso si può dire che la nostra generazione ha effettivamente lavorato per l'unità nazionale, conseguendo tra l'altro importanti successi almeno fino al 1975-76, fino a quando cioè il "nord e sud uniti nella lotta" è rimasto senso comune in entrambe le parti della penisola. Sarei quindi tentato di invertire del tutto la tua periodizzazione: ame sembra che il movimento fu localistico prima e nazionale poi. Quel localismo fu soprattutto senso della territorialità e forse della comunità. Come ha ben messo in luce Peppino Ortoleva, per tutto il Sessantotto il confronto non avvenne tra posizioni politiche, ma tra sedi: Torino e Pisa, Trento e Roma, ciascuna con i suoi stili .e le sue parole chiave, ben radicate nel contesto locale. Considero anch'io molto importante la diffusione del movimento in provincia. Ma mi sembra che la distribuzione geografica del Sessantotto in Italia non corrispondesse alla distribuzione geografica del pubblico impiego (che era per definizione dappertutto e profondamente meridionalizzato), ma piuttosto alla geografia della resistenza antifascista e della modernizzazione .. E anche ammettendo (ma non ne sono così sicuro) che il movimento in Francia fosse circoscritto a Parigi e quello in Germania a Francoforte (e, diciamolo pure, a Berlino), bisognerebbe poi spiegare perché le radici legalitarie e impiegatizie che in Italia avrebbero contribuito a diffondere il movimento, avrebbero invece fallito in quei paesi. O, al contrario, perché mai la cultura della legge avrebbe dovuto essere più radicata in Italia che nel resto d'Europa. 2. In realtà a me sembra che il movimento del Sessantotto si sia posto più in rottura che in continuità con quella tradizione (e così passo direttamente al punto 3). Fu un movimento sostanzialista, in aperto contrasto con il formalismo dei padri. Con questo non intendo affatto difendere il sostanzialismo. Nella mia recensione avevo scritto che "questo fu uno dei limiti più gravi del movimento, che alla lunga contribuirono a travolgerlo" e non ho nessuna difficoltà ad ammettere le affinità, su questo punto, con il primo fascismo. Volevo soltanto segnalare la difficoltà di fare derivare quel movimento da quella cultura nazionale "scolasticacon-finalità-di-impiego-statale". Per quel che riguarda la mia storia personale, devo dirti che l'elemento principale che contribuì alla mia radicalizzazione politica non fu l'esempio delVietnam, del "Che" odel Blackpower, mal' essere studente in una facoltà italiana di legge, dominata da una cultura giuridica formalista, sillogistica e autoreferenziale, ispirata ad un ordine puramente mentale, in cui qualsiasi riferimento alla democrazia - comunque intesa - o a problemi sociali comunque interpretati - era soffocato da uno statalismo spettrale. L'Idealtipo della Norma astratta era stato piegato in puro culto dell'autorità e in giustificazione aprioristica di qualsiasi assurdità. Il nostro temutissimo professore di diritto civile era solito illustrare agli studenti del primo anno il concetto di diritto positivo spiegando che se lo Stato avesse stabilito che "tutti i cittadini devono a girare in mutande con tre imbuti in testa", il giurista non avrebbe potuto far altro che prenderne atto. Questo
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