Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

liberale, portatrice di una cultura giuridica formalista che, malgrado l'ostilità del fascismo, si consolida durante il regime a partire dalla riforma De Stefani del 1923. È formata in prevalenza da funzionari meridionali, molto mobili sul territorio nazionale·e, proprio per la loro provenienza geografica, debolmente legati al movimento fascista. Contro questa burocrazia legalitaria e garantista vengono sferrati ripetuti attacchi 'ifa parte del fascismo nel corso degli anni Venti, ma senza significativi successi. li risultato è piuttosto quello di affiancare ad essa una burocrazia parallela anagraficamente più giovane, di estrazione fascista e proveniente principalmente dal centro-nord. Quest'ultima burocrazia va a occupare le nuove funzioni interventiste e assistenziali tipiche del nascente stato sociale, che vengono assegnate a enti parapubblici, al di fuori dell'organizzazione ministeriale. Al legalismo astrattamente universalistico della prima burocrazia si contrappone la logica della seconda, fondata sulla gestione della politica, l' opportunismo di partito o, nel migliore dei casi, l'efficienza modernizzante. Negli anni Trenta lo scontro aperto tra le due culture si attenua nel quadro della nazionalizzazione forzosa delle masse, basata sul monopolio fascista della politica, cioè sul trionfo dell'arbitrio e della discrezionalità, pavesata di modernità. Il fascismo rinuncia ai disegni originari di fascistizzazione della burocrazia e si accontenta di una sua partiticizzazione: l'appartenenza al partito cessa di avere un contenuto ideologico e si avvia a rappresentare una condizione formale con validità giuridica. È il momento dell'unificazione nazionale dell'impiegato pubblico da cui emerge una cultura media di tipo nuovo eppure impregnata di antico: un misto di "azzeccagarbugli" e di "ragion politica", di nazionalismo e statalismo, di protervia e garantismo (che si trasferiscono pari pari - potremmo aggiungere - nell'amministrazione repubblicana che ben conosciamo, lottizzata e formalistica, clientelare e astrattamente rispettosa delle norme) . Nella contrapposizione tra le due razionalità amministrative, la "razionalità della norma" e la "razionalità della politica"; l'autrice non nasconde le sue preferenze per la prima, e cita alcuni episodi illuminanti in cui l'antica logica burocratica ha fatto da ar~ine, anche nell'epoca del fascismo trionfante, alla protervia del regime. E su di essa che dobbiamo continuare a contare: "sta ancora nella rifondazione di una cultura della norma l'unica possibilità di una comune, nazionale, esperienza di cittadinanza". Confesso di avere qualche dubbio sui meriti di'"quella" burocrazia. La cultura giuridica che domina l'amministrazione pubblica italiana è fin dalle origini anche una cultura formalistica, autoritaria e chiusa ai fenomeni sociali. Può aver offerto significative resistenze alle prevaricazioni politiche o ai particolarismi, ma è probabile che più spesso abbia finito per avallarli chiudendosi nel rispetto astratto delle leggi e fingendo di non vedere. Per la sua insensibilità rispetto ai fatti e ai bisogni concreti era strutturalmente incapace di sostenere la transizione verso lo stato sociale erogatore di servizi che, indipendentemente dal fascismo, sarebbe comunque dovuta avvenire. Se tale era il cemento dello stato non c'è da stupirsi per l'attuale crisi dell'unità nazionale. Il problema riguarda se mai, come insiste ripetutamente Salvati, la responsabilità delle classi dirigenti italiane che hanno abbandonato a se stessa (se non combattuto) la cultura della legge, impedendole di evolversi alla luce dei nuovi compiti dello stato. Di primo acchito non mi convince pienamente neppure la tesi circa il rapporto tra cultura degli impiegati pubblici e movimento del '68. Alla domanda di Salvati: "come spiegare un linguaggio comune da Torino a Palermo?", mi verrebbe istintivamente da rispondere che quel linguaggio non era affatto comune o, per lo menp, non più di quello che univa Torino o Palermo a Berlino, Berkeley o Parigi. Il movimento del '68 fu un fenomeno nello stesso tempo universalistico e localistico, che tendeva a saltare del tutto il livello nazionale. E d'altra parte la sua cultura fu tipicamente sostanzialistica, ossia l'esatto contrario del formalismo burocratico di "quei" padri che trattò sempre con disprezzo e sarcasmo (e questo fu - tra l'altro - uno dei limiti più gravi del movimento, che alla lunga contribuirono a travolgerlo). Questa, ripeto, è la mia reazione istintiva. Ma ammetto che la riflessione di Mariuccia Salvati offre nuovi stimoli al ripensamento del rapporto con un passato impiegatizio che fc;rse abbiamo liquidato troppo sbrigativamente. Bisognerà pensarci ancora. ILCONTESTO Tre lettere Mariuccia Salvati e Luigi Bobbio Roma, 19.11.'92 Caro Luigi, ti scrivo anzitutto per ringraziarti dell'interesse e dell'attenzione che hai dedicato al mio libro ma anche perché, come tu osservi in apertura di articolo, sono convinta che il mio libro tocchi un ambito di problemi particolarmente attuale. Si tratta non tanto, a mio avviso della nostra vacillante unità nazionale (c'è anche questo, naturalmente, ma come un "sottoprodotto") quanto del rapporto tra cittadini e istituzioni e dell'atteggiamento che oggi la nostra generazione di sinistra può o potrebbe tenere in tale materia. Mi spiego meglio sui tre problemi che tu sollevi: 1. Cominciamo dal '68 e dal tuo definirlo un fenomeno insieme universalistico e localistico. È evidente che nel mio libro il riferimento al '68 è un pretesto tinto di autobiografia. Ma è un pretesto per dire che cosa? Attenzione, la generazione del '68, e anche i suoi storici, hanno trascurato il fatto non solo che quegli studenti erano figli della classe media, ma di una particolare classe media che in Italia era ancora prevalentemente il ceto burocratico-statale. Conseguente interrogativo storico: è forse questo che spiega la sua diffusione nei grandi centri e in provincia? Il mio libro dà sicuramente risposte parziali e forse errate, ma a me interessa soprattutto chiarire il grande interrogativo che sta al fondo. Insisto su questo punto perché credo che l'ottica di molti nel riandare a quell'anno mirabile sia stata viziata dall'aver vissuto il movimento nei grandi centri. Il paragone non si deve fare solo tra Torino o Palermo e Berkeley, come tu scrivi, ma tra Abbiategrasso, Pesaro, Cremona, Potenza e Berkeley (mentre in USA c'è poi solo Berkeley, in Francia, Parigi, in Germania Francoforte!): ora, questo fenomeno non si chiama localismo per me, ma diffusione nazionale, ed è, insisto, solo italiano. Forse non ti sembrerà rilevante o interessante, ma per me che vengo dalla provincia lo è. A mio avviso, infatti, è solo negli anni Settanta che la crisi innescata dal mancato sbocco istituzionale a livello di governo del movimento del '68 cerca soluzioni nel "localismo" e nel confronto con le amministrazioni locali, sfruttando le speranze suscitate dalla nascita delle Regioni. 2. - Chiarito l'interrogativo (il perché della diffusione nazionale di una cultura di contestazione, critica), nel mio libro si sostienç che una risposta si può trovare nel peso che nella nostra storia culturale ha avuto la diffusione dell'unica riconosciuta (intendo, anché dai suoi detrattori) cultura nazionale prima del1'avvento di Pippo Baudo!: quella scolastica con-finalità-diimpiego-statale. Conseguentemente, ci si avventura nella storia di questa cultura (che, come ldealtipo aveva la Norma astra~ weberiana), nella sua diffusione, tramite i frequenti spostamenti dei funzionari statali, e nella sua parabola complessiva. Ora, risulta che la sua curva discendente (questa è l'altra specificità del nostro paese) è segnata non tanto o non solo - co?1e ~egl~ ~~ paesi europei - dalla incapacità di questa burocrazi_a d1 _ap~i. ai nuovi fenomeni sociali (come tu giustamente osservi), di stabilire un ponte tra cittadini e Stato, ma dal fatto che di q~esta cosi~detta "apertura" al Nuovo si sia storicamente fatta canco una dive~a entità istituzionale, il Partito nazionale di massa, che nella fattispecie italiana degli anni '30 era quell~ totali~o ~~is~: Di questo pesante retaggio storico si sono ~01 trovab eredi I p~lrtìtì_del dopoguerra i quali, se è vero, come scn~ono lt: ~os~ Histonae! che hanno svolto una essenziale funzione di msenmento det

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