Linea d'ombra - anno XI - n. 78 - gennaio 1993

GENNAIO 1993 - NUMERO78 LIRE9 .000 ' mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo UNRACCONTO DIRALPHELLISON BENNI:DIBAMBINIEDIMINORANZE WURM:COMÈMUOIONO LELINGUE , L'ITALIA INSOMALIA/SULR~i.ZISMO/ANCORA SUSIMONEWEIL BERGAMIN/ BESSA·LUIS/ CRUZVARELA/CUNQUEIRO MUNIF/WANNUS ·, \ SPED.IN ABB.POSTALEGR. 111-70%- VIAGAFFURIO 4. 20124 MILANO OMAGGIO A ALBERICAMUS V

• , MARIETTI Hans Blumenberg La legittimità dell'età moderna Un'analisi dei percorsi che hanno portato, dal medioevo ad oggi, all'affermarsi del concetto di modernità come categoria esistenziale. Una panoramica approfondita e affascinante del tentativo da parte dell'uomo di trovare, attraverso una ragione "secolarizzata", un senso al proprio essere al di fuori di ogni motivazione trascendente. Emmanuel Levinas Fuori dal Soggetto Da Buber a Leiris, da Jankélévitch a Rosenzweig, una rilettura dei maestri che hanno influenzato il pensiero del filosofo francese di origine lituana. Una ricognizione partecipata e affascinante. Jules Monchanin Mistica dell'India, mistero cristiano La preziosa testimonianza di un sacerdote e di un apostolo che si fece indiano per amore dell'India e, alla luce della propria fede, cercò di ripensare l'India come cristiano e il cristianesimo come indiano. Vitaliano Mattioli Rilettura di una conquista Un indispensabile inquadramento culturale dei problemi legati alla storia della presenza spagnola in America Latina, frutto di un lavoro decennale di ricerca e di verifica nei luoghi stessi del continente latino-americano. Josef Leo Seifert Le sette idee slave Finalmente in traduzione italiana un classico delle ricerche sull'origine e il significato della cultura slava. Un affresco suggestivo, per molti versi ancora insuperato, per cogliere il senso più profondo delle rivoluzioni succedutesi in Europa. Pia Pera I Vec.chi Credenti e' l'Anticristo L'analisi dello scisma dei Vecchi Credenti Asacerdotali, avvenuto in Russia nel XVII secolo, permette di comprendere nelle sue più profonde implicazioni un capitolo decisivo nella travagliata storia dei fondamentalismi religiosi. A. Heller - F. Feher La condizione politica postmoderna Indagini e interventi sul concetto di postmodernità, inteso come spazio-tempo delineato da coloro che abbiano problemi o quesiti da porre alla modernità. Dall'etica del cittadino alle forme di moralità della politica, dalla giustizia sociale al ruolo dei movimenti culturali, un itinerario attraverso le emergenze del dibattito contemporaneo. Fausto Coen Quel che vide il Màt Cùssi Nella ignara e pittoresca comunità ebraica di una piccola città dell'Italia degli Anni Trenta, la vicenda di un misterioso personaggio, a metà tra il pazzo e il saggio, mentre all'orizzonte si profilano grigie ombre, preludio della tragedia di un popolo. Un romanzo struggente e attualissimo. Salvatore Cambosu Due stagioni in Sardegna A trent'anni dalla morte di Salvatore Cambosu, la pubblicazione di questo affresco della società agro-pastorale sarda degli anni '50-'60 riapre il discorso critico su uno degli autori più amati dell'isola e più conosciuti a livello nazionale. Eraldo Affinati Veglia d'armi Un'ispezione, inconsueta nei modi e nelle forme, in "Guerra e pace" di Tolstòj per individuare il cammino etico da ripercorrere e sperimentare nella "veglia d'armi" dell'esistenza. Nelle pagine di un capolavoro della letteratura di ogni tempo le domande, e i tentativi di risposta, agli eterni quesiti sul senso e i modi dell'esistenza. Maurizio Cecchetti La città dell'angelo Conversazioni con alcuni dei protagonisti di diverse discipline, per portare l'architettura e la città ad esprimere una nuova centralità dell'uomo senza cedere al culto della tecnologia o al teatro di cartapesta. Abdallah Laroui Islam e modernità Dall'analisi comparativa tra Islam ed Europa, una riflessione sulle istanze stesse della modernità e sui concetti di libertà, stato, democrazia. Un confronto serrato con il pensiero politico di Machiavelli illumina il fondamentale ruolo dell'Islam arabo nel dialogo fra oriente e occidente. André Miquel L'Oriente di una vita Le esperienze di vita e di studio di uno tra i più importanti arabisti viventi gettano un ponte tra mondo arabo e l'Europa e assumono le caratteristiche di una guida spirituale e intellettuale di intensa suggestione. Costruire la società multirazziale Indagini e interventi sull'integrazione socio-culturale dei popoli e delle culture nel bacino del Mediterraneo. Da Giuseppe De Rita a Igor Man, da Maurice Borrmans a Rachid Boudjedra, un gruppo di voci qualificate si interroga sulla possibilità di costruire una società multiculturale. •

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1992 · ·t evoluziotni•e.·.·•

Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Caterina Carpiriato, Bruno Cartosio, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Save1io Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Madema, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Revelli, Marco Restelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re . Amministrazione: Patrizia Brogi Hannoconlribuitoalla preparazionedi questo numero: MarcoCapietti, il CentroCulturale Francese,PaolaCosta,AlessandroFilippini,Barbara Galla, Laura Gonçalez, l'Istituto per la Resistenza di Novara, l'Università di Bologna e Gianfranco Bonola, Guglielmo Forni, Adriano Marcheui; le case editrici Feltrinelli,laredazionedi Diogéne, Il Leutolibreria dello spettacolodi Roma,le agenziefotografiche Contrasto,Effigie e GraziaNeri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 20124 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. Librerie PDE- Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze -Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Tel. 02/48403085 LINEA D'OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 78 - Lire 9.000 I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi. LINEA D'OMBRA IL CONTl=I .... IO________ _ 4 6 8 14 Alessandro Triulzi Giampaolo Cadalanu Heinrich Mann Luigi Bobbio, Mariuccia Salvati Maria Helena Cruz Varela CONFRONTI Somalia: ingerenza umanitaria? Emarginazione giovanile e razzismo Il loro rozzo antisemitismo a cura di Maria Teresa Manda/ari Gli impiegati e i loro figli Preghiera contro la paura a cura di Laura Gonçales L'autobiografia di un cieco anno XI gennaio1993 numero 78 16 17 19 Giancarlo Azzano Diego Mormorio Marcella Lorrai Fotografia e proletariato all'inizio del Novecento La sfida di Jimi Hendrix e Paolo Bertinetti su Modernismo/modernismi a cura di Paolo Cianci (a p. 21) e Andrea Berrini su Ben Okri (a p. 22). Gli autori di questo numero (a p. 79) POUIA 47 50 José Bergamfn Alvaro Cunqueiro STORII 29 51 53 24 38 56 58 60 62 69 Ralph Ellison Alvaro Cunqueiro Augustina Bessa Lu[s Albert Camus Stefano Benni · Augusto de Campos 'Abd ar-Rahman Munif Sa'dAllah Wannus Stephen A. Wurm Mare Richelle Dalle "Rimas e "Colpas" a cura di Dario Puccini Qualcuno canta a Chittor a cura di Danilo Manera Volo di ritorno a cura di Marisa Bulgheroni Qualcuno canta a Chittor a cura di Danilo Manera Viaggio in Italia La passione di vivere a cura di Jean-Claude Brisville Di bambini e di minoranze a cura di Goffredo Fofi Musica e poesia a cura di Paolo Scarnecchia Dopo il Golfo a cura di Isabella Camera d'Afflitto Testimoni della storia a cura di Monica Ruocco Simone Weil: individuo e società La morte delle lingue L'uomo neuronale, ostetrico di spiriti La copertina di questo numero è di Lorenzo Mattotti. Linea d'ombra è stampata su carta riciclata Freelife Vellum white - Fedrigoni

IL CONTESTO ,...,,._; Somalia: ingerenza umanitaria? Alessandro Triulzi · Nel centenario della occupazione italiana dei porti del Benadir sulla costa somala, l'Italia ufficiale festeggia a suo modo la ricorrenza, inviando "su richiesta" dell'ONU un nuovo contingente di soldati e truppe scelte che dovrà raggiungere un assai più folto esercito USA già sul posto, in nome di un nuovo diritto dei popoli fin qui ferocemente disatteso ma, dopo l'avallo di Giovanni Paolo II, proclamato oramai ai quattro venti, quello della cosiddetta "ingerenza umanitaria". Salutando i militari italiani in partenza per l'Africa a nome del Governo, il ministro Salvo Andò (Psi) ha dichiarato apparentemente senza remore: "Siamo chiamati a esercitare un'ingerenza nei confronti della questione nazionale della Somalia, ma si tratta soltanto di un'ingerenza umanitaria. Non vogliamo schierarci né con l'una né con l'altra fazione. Il nostro obiettivo è soltanto quello di aiutare la popolazione affamata." ("La Stampa", 12.XII.1992). Poiché obiettivo principale dell'Italia avrebbe dovuto essere questo anche in anni passati, e certo doveva essere lo scopo non ultimo di quei circa 2.000 miliardi spesi dalla Cooperazione in Somalia che hanno invece sollevato appetiti benpiù prepotenti di potere e corruzione, è così peregrino dubitare che l"'ingerenza" di oggi dia migliori risultati di quella di ieri? Tutt'altro. Ce n'è abbastanza, ritengo, peruna meditata riflession~ da aggiungere alle tante, di segno contrario, che in questi giorn}, e per tutto il periodo natalizio e oltre, ci allieteranno ricordando la (nostra) bontà e le (altrui) sciagure. La fanfara è già iniziata, con lo sbarco finto in diretta dei Marines calcolato nel periodo di maggiore ascolto in America, il prime time televisivo conteso per ogni messaggio o scoop nazionale, le conferenze stampa su basi d'appoggio e tecnologie avanzate per il trasporto di truppe e mezzi, il conteggio delle razioni da campo con le relative calorie aviotrasportate, ecc. Insomma l'implicito confronto, massiccio e inoppugnabile, di due mondi distanti tra loro anni luce. Anzi, alle due estremità esatte del mondo in cui, ignorandoci e spesso scordandolo, viviamo. La Somalia è dall'altra parte. Occasione d'oro dunque per rincuorare cuori e menti del nostro mondo, qui e oltreoceano, a volte sospettosamente tentennanti di fronte alle leggi trionfanti del mercato e ai suoi meccanismi di aggiustamento, recessione, disoccupazione, e alla apparente caduta di valori e perdita di identità colletti ve..Che Natale ragazzi, di fronte a Marines e Parà di Dallas o Catanzaro che si tolgono una razione di bocca (3600 calorie giornaliere, 1 O varietà per il breakfast, 20 varietà per pranzo e cena, versione kosher e vegetariana incluse, costo del trasporto un miliardo al giorno) per darla a uno dei destinatari dell"'ingerenza umanitaria" del Corno d'Africa (un quarto della popolazione cronicamente sottoalimentato, cioè sotto le 2000 calorie al giorno, un milione di affamati gravi, 170 dollari procapite annuo contro i 20.000 dell'Occidente, 48 anni di speranza di vita, e che vita, contro i nostri 75), con tanto di sorriso buono, foto ricordo e via.HaragioneCalchi Novati ("Ilmanifesto", 8.XII.1992) quando dice che da ora in poi tutto diventerà più difficile, compreso la lotta contro il razzismo dilagante perché con questa spedizione "umanitaria", ciò che si "restaura" è la divisione stessa del mondo che accetta e riconosce al suo interno l'esistenza di popoli "inferiori". Due Natali fa, mentre nelle sale patrie infuriavano le palme ondeggianti e l'errare sparso di Debra Winger sulle dune di Tè nel 4 deserto, l'Italia ufficiale si ritirava precipitosamente dalla Somalia con voli e navi di soccorso, e anche allora spedizioni e truppe scelte inviate "per scopi umanitari" chiudendo così senza troppa gloria e con infuocati ripensamenti presto soffocati da un più lungo e perdurante silenzio, la propria centenaria presenza in Somalia. Da allora il nostro paese non ha certo brillato per capacità di intervento o di soccorso nei confronti della ex-colonia la cui lunga agonia oggi si pensa di interrompere con ben addestrate, ben nutrite, ben sterilizzate (18 vaccinazioni per i soldati d'oltreoceano) truppe d'assalto e con~iunte azioni di rastrellamento contro i "signori della guerra". E tutto quanto si doveva e poteva fare? Dobbiamo proprio rallegrarci? Ritengo di no. Certo, occorreva intervenire, e assai prima di oggi. Ma con strumenti e traguardi diversi, e con una più forte partecipazione reale ai problemi e alle difficoltà attuali della Somalia. Mi spiego. L'Italia si accinge ad inviare in Africa contemporaneamente due corpi di spedizione, uno in Somalia e l'altro in Mozambico, con compiti all'apparenza simili ma in realtà da posizioni e punti di partenza diversi. In Mozambico, la disponibilità dell'Italia a dar corso a una richiesta dell'ONU di invio di un contingente "di interposizione" tra le forze governative e quelle ribelli della Renamo fa seguito a una forte pressione da parte italiana sulle due parti che è stata mantenuta fino alla sigla di un accordo lungamente e tenacemente negoziato a Roma, auspici la Comunità di S. Egidio e le doti personali dell' On. Mario Raffaelli, già Sottosegretario agli Esteri. In Somalia, il governo italiano manda un contingente armato, per così dire, per rinuncia, cioè per non aver potuto o voluto sostenere quella stessa tenacia negoziale e neutralità tra le parti in conflitto tra loro e per aver rinunciato da tempo alla crescita di un progetto politico di ampio respiro per la sua ex-colonia, in ciò confermata drammaticamente nel suo ruolo periferico e residuale di territorio-merce di scambio di tangenti e potere clientelare da parte dei rispettivi partiti, uomini politici, clan e famiglie al governo nei due paesi. Il costo, altissimo per entrambe le classi dirigenti, è stata la caduta in verticale dello stato e della sua sovranità in Somalia (dice bene Ettore Masina, ancora su "Il manifesto" del 9 dicembre: "In Somalia non esiste più Stato e non esiste più opinione pubblica che possa scegliere il proprio futuro. La Somalia è "implosa", è scoppiata in sé stessa. E deserto più rovine più profughi più bande armate.") e ha contribuito in Italia a delegittimare la stessa classe dirigente nel suo insieme promuovendo di fatto l'attuale dilagare irrefrenabile e "giustificato" del leghismo. E scusate se è poco. Per questo motivo, e non solo perché "gli italiani che vanno in Somalia si portano nello zaino cento anni di storia coloniale più le recenti compromissioni" ("La Stampa", 12 dicembre), che l'operazione Ibis, nome in codice della spedizione armata italiana in Somalia, è vista con sospetto e rabbia a Mogadiscio, e solleva dubbi e apprensioni reali.L'Italia poteva e doveva intervenire, ma prima, interrompendo quando era ancora possibile e auspicato da più parti la spessa rete di collusioni e appoggi e interessi clientelari con cui Siad Barre aveva costruito il suo potere, e l'Italia ufficiale con lui, denunciando assai prima e con ben maggiore forza la ripetuta violazione di ogni principio democratico e umanitario, "ingerendosi" correttamente, e cioè a livello politico e di rapporti tra governi, nella dinamica interna della complessa vita politica somala sollecitando e appoggiando quelle forze che

solo tardivamente, e senza convinzione, venivano scoperte alla vigilia del colpo di stato. E l'Italia doveva e poteva intervenire con maggiore forza e convinzione nelle assisi internazionali, alle Nazioni Unite come alle Comunità Europee, e financo presso il Vaticano, per prevenire, denunciare, sollecitare e stimolare senza sosta quella risposta internazionale che oggi tardivamente, sotto la bandiera americana e non ONU, e con un profilo che rimane prevalentemente militare, si va compiendo sotto i nostri occhi attoniti. E atterriti per l'ipocrisia di un sistema internazionale che interviene solo come e dove vuole, e dà nomi nuovi a cose vecchie, e viceversa, perché più grande è la confusione degli animi, e delle menti, e maggiore è lo spazio di azione dei più ricchi e potenti. Così si parla, e qualcosa dentro di noi arrossisce e s'infuoca, di "protettorato" delle Nazioni Unite là dove è, se non altro per la massiccia sproporzione di forze, palesemente americano, di ingerenza "umanitaria" nel momento stesso in cui si inviano cannoni e carri armati e truppe scelte, manager di guerra e non di pace, in una zona del mondo in cui si fa guerra e ci si uccide da anni. Ragazzi analfabeti di quindici anni e anche meno, nati in guerra e a questa addestrati dalla fame e il bisogno, maneggiano mitra e kalashnikov, e non libri o penne, perché questo è quanto il Terzo Mondo affamato ottiene dall'Occidente "umanitario". E chiamiamo "signori della guerra" loro e non noi, veri mercanti d'armi, e primi fornitori, nel momento stesso in cui inviamo altre armi, più nuove e più mortali, perché combattano (o sostituiscano?) le vecchie. Ma crediamo veramente che tutto questo serva ad aumentare la nostra e loro umanità? Siamo ancora nel 1992, o non stiamo precipitando nell'orwelliano "double talk" di 1984? Solo chi non sa cosa sia la Mogadiscio del 1991-1992 può pensare che altre armi, e altre inevitabili morti, possano servire la e ILCONflSTO causa della pace e dei valori umanitari in Somalia. La battaglia di Mqgadiscio, così spettrale e inspiegabile nella sua insensata casualità e efferatezza così come comunemente riportate sulla stampa, vista da vicino pres~nta non pochi elementi di prevedibilità e "razionalità" politica. E lo scontro tra clan contrapposti che rivendicano entrambi il diritto di proprietà (gli Abgal di Ali Mahdi) o il possesso (gli Haber Ghidir di Aidid) sul territorio della capitale disertata dai vecchi gruppi Darood e famiglie claniche alleate o clienti di Siad Barre. La lotta non è tanto "clanica" quanto politica in quanto corrisponde a una diversa percezione della resistenza sostenuta contro il regime di Siad Barre nonché la risposta da dare al dopo-Barre: i seguaci di Aidid rivendicano una più antica tradizione di resistenza al regime e dunque un diritto di risarcimento e un cambio di guardia; i seguaci di Ali Mahdi sostengono di essere stati loro a causare la fuga del dittatore e rivendicano diritti di preminenza sul territorio di Mogadiscio che non intendono cedere ad altri. La lotta per il potere tra i due gruppi è esasperata dalla grave situazione alimentare e di smobilitazione delle risorse produttive nel paese. Di qui la lotta feroce, intrapresa casa per casa a Mogadiscio. Di qui anche la natura particolare di questa guerriglia urbana che concentra sui centri urbani, e sulla requisizione delle armi e la distribuzione degli aiuti alimentari, il proprio potere politico e le proprie risorse economiche. Roland Marchal, un ricercatore del CNRS francese che ha visitato di recente Mogadiscio riferisce ("Politique Africaine", giugno 1992) che i combattenti dei due gruppi ricevono ogni giorno un centinaio di cartucce di cui la metà viene subito scambiata con tè, sigarette e soprattutto kat, l'erba eccitante il cui consumo è indispensabile Somalia, foto di Alexondro Aviokon (og. Grazio Neri)

IL CONTESTO per sopprimere fame e paura nel corso della giornata, e l'altra metà serve a mantenere le posizioni e razziare case o convogli di aiuti, le uniche scarse risorse alimentari a disposizione della popolazione urbana. In un paese in cui da due anni non si produce più cibo, e non esistono più salari o servizi, anche i fili della luce, e il prezioso rame al loro interno, possono servire come moneta di scambio per altre armi, che servono ad altre razzie, che estorcono altro cibo. Così, nel non-Stato predatorio di Mogadiscio, tutto è tassato, dal passaggio dei feriti a quello dei giornalisti, dai convogli di aiuti a quelli umanitari. Potranno altre armi combattere la voce delle armi già in azione? C'era bisogno, in tale situazione di un ulteriore esercito di occupazione formato di 30.000 americani armati, e qualche altra migliaia di contingenti armati europei, dalla Francia all'Italia (le altre due ex-potenze coloniali sul posto), più aiuti militari esterni della Gran Bretagna, Belgio, Canada, Turchia, Egitto e, non ancora ammessi al grande festino militare, Germania e Giappone? Non di questo c'era e c'è ancora bisogno, ma dell'avvio· immediato di un processo di pacificazione sociale non armato, cioè intorno a un progetto politico meno fragile di una semplice stretta di mano tra Ali Mahdi e il generale Aidid, di una ripresa delle attività produttive ora quasi interamente abbandonate da popolazioni in fuga o in lotta, di un rinnovato patto nazionale che sappia fare i conti con la complessa realtà somala del dopo Siad e dei guasti arrecati dal suo regime al fragile tessuto delle alleanze etnico-nazionali e politiche del post-indipendenza. Se ciò sia ancora possibile è troppo presto per dirlo, ma sappiamo per certo che uomini e luoghi attanagliati da sempre dalla fame e dal bisogno reagiscono a momenti di crisi (e non è questo l'unico nella tragica storia della Somalia e dei paesi della regione) prima e innanzitutto con forze interne e risorse locali che occorre stimolare e far crescere e, se occorre, guidare e canalizzare entro quadri di ricomposizione nazionali e regionali. Sappiamo anche, perché ce l'ha insegnato la tragica esperienza della fame nel Sahel e in Etiopia, e oggi in Mozambico, che rastrellamenti militari, campi profughi o di contenimento, sistemi di sostentamento attivati unicamente dall'esterno, e in generale ogni risposta militare o meramente coercitiva alla fame - perché pur sempre di fame si tratta - quando non sono accompagnati da un progetto politico e da vasti consensi capaci di raccogliere e incanalare risorse collettive a livello nazionale, non danno i risultati sperati. Anzi debilitano e smorzano le risorse interne al sistema mettendo in modo meccanismi e reazioni non meno disgregativi che finiscono obiettivamente per ostacolare il processo di pacificazione, anche se le iniziali misure erano state concepite intraprese per fini "umanitari" o con obiettivi di sicurezza o di pace. Emarginazione giovanile e razzismo Chi sono gli skinheads italiani Giampaolo Cadalanu "Teppisti": otto lettere. "Naziskin": otto lettere. L'ingombro dei caratteri tipografici non dev'essere molto diverso. Eppure il secondo termine ha fatto quasi sparire il primo, incontrando un successo straordinario tra i titolisti di quotidiano (in genere propensi a scegliere le parole più corte). I gesti del razzismo italiano più o meno ordinario hanno così trovato un colpevole precotto, uscito dal buio dei nostri incubi peggiori e affacciatosi sulla ribalta con l'entusiastico accoglimento di stampa e tv. Gli articoli sulla legge "contro i naziskin" (definita "necessaria per fronteggiare l'ondata di razzismo", come se fossero termini omologhi) compaiono in pagina appena sotto i resoconti degli orrori tedeschi, da Hoyerswerda a Rostock a Molln. C'è una specie di gara all'intervista, dei leader bruni in Germania (che si fanno pagare, quindi ogni chiacchiera significa danaro nelle casse neonaziste) come dei "capetti" nostrani. Dalla logica dello scalpore discende poi la necessità di alimentare ogni leggenda, così che l'avvenimento scappa di mano a chi dovrebbe solo osservarlo e ne divora ogni scrupolo. In una rappresentazione poco articolata le gesta di un gruppo di giovani "borgatari" e le debolezze della repubblica di Weimar diventano parte dello stesso ragionamento. Il nuovo mito negativo, nutrito di risonanza sui media, cresce diligentemente e conquista nuovi spazi, sulle pagine ma anche nell'immaginario di massa. E questo succede anche nella percezione di soggetti sociali estremamente deboli. Fra sale-giochi e baretti di periferia, nel nostro paese esiste una vasta area di malcontento semisommerso, composta per la maggior parte da giovani delle classi più basse. Sono ragazzi che spesso hanno abbandonato la scuola senza trovare un inserimento stabile nel mondo lavorativo. La loro comprensione del vivere sociale passa attraverso strumenti culturali in genere abbastanza modesti, né la provenienza dalla classe lavoratrice garantisce le 6 basi di una qualche coscienza sociale. L'unica visione del mondo che viene loro proposta è mediata dai mezzi di comunicazione e fruita in modo acritico. In parole più semplici, molti di questi giovani non sono in grado di fare distinzioni fra "Dallas" e la realtà. Il confronto fra l'esperienza dei quartieri e il mito patinato succhiato dagli schermi tv o assorbito con l'inchiostro tipografico non può che produrre frustrazione e senso di estraneità. Ovvero personalità gracili, facile obiettivo per idee "forti" e slogan semplici e immediati. Si aggiunga l'abbandono delle periferie urbane e delle province, dove l'intervento sociale nelle aree più disgregate è lasciato al sacrificio di pochi volontari o a ciò che resta delle strutture cattoliche, e dove invece la presenza degli spacciatori è capillare e costante. Rimasti sulla porta della festa consumistica e oppressi dal1' idea di esserne ingiustamente esclusi, molti giovani e non più giovani vivono in modo drammatico la comparsa di nuovi soggetti sociali nel gradino appena inferiore al loro. Il contatto con culture straniere, a volte portatrici di manifestazioni difficilmente omologabili, ha un effetto devastante sugli equilibri degli strati sociali più sacrificati. Gli immigrati portano una minaccia insostenibile: la concorrenza per un posto nel grande banchetto. Per di più non ringraziano, magari per sopravvivere infrangono le leggi del paese che gli ha benevolmente aperto (o forse socchiuso?) le porte. Nasce un rancore sordo, pronto ad appigliarsi al minimo pretesto per far scattare la violenza. A fornire le "buone cause" ci pensa qualche gruppuscolo organizzato. Non si tratta di nostalgici qualsiasi: i capi delle nuove formazioni sono forse dotati di rudimentali strumenti teorici ma sanno muoversi con agilità in una dimensione comunicativa. Temuti o a volte derisi come aspiranti Adolf, sono in realtà dei piccoli Goebbels, capaci di gestire le pubbliche relazioni meglio di quanto i loro interlocutori con microfono o macchina

per scrivere dimostrino di capire. Il loro progetto è esplicito: conquistare la rappresentanza di quell'area di scontento, ottenere la mobilitazione di chi "ancora non sa" di essere fascista. Lo scopo sembra quello di creare e consolidare un nuovo movimento di destra radicale, considerato probabilmente strada obbligata per progetti di maggiore ambizione. Si considerano "rivoluzionari" e coerentemente ricercano l' "egemonia" su un'area politica inquieta. Ma la maggior parte dell'azione si svolge nel terreno dei mass-media. Non mancano i precedenti: ogni regime totalitario ha usato i mezzi di comunicazione per consolidare il proprio potere. Quello che invece preoccupa è l'accettazione del gioco in modo quasi passivo da parte degli operatori del!' informazione. Personalmente ho l' impressione che la stessa ripresa di manifestazioni antisemite più che l'espressione di reali sentimenti contro la comunità ebraica sia una mossa strumentale: il ricorso ai pregiudizi più scandalosi come strada più breve verso i titoli di giornale. Tutto questo in un contesto nel quale la concorrenza per lo scoop e la dipendenza dai titoli "drogati" rischiano di avere la stessa funzione del Minculpop o dei commissari politici di altre esperienze storiche. Nel 1976 fu il lavoro dei quotidiani popolari inglesi a spianare la strada al National Front per la conquista del suo massimo successo, fiancheggiato dall' "ala dura" del movimento skinhead. Anche in quell'occasione lo spunto fu una mobilitazione razzista, contro un piccolo gruppo di rifugiati del Malawi accolti sulla terra di Sua Maestà. Nei titoli dei tabloid diventarono un'ondata interminabile, pronta a invadere gli hotel di lusso e a minacciare le casse statali in modo considerevole. Al grido di "If they are black, send them back", il National Front cavalcq la protesta e alle successive elezioni locali raggiunse percentuali mai sognate con oltre 250 mila voti. Un riscontro più modesto dell'effetto di imitazione lo danno episodi nostrani. Uno per tutti: l'importatore degli scarponi "Doc Marten' s" - un oggetto di culto per gli skinhead- ha registrato il triplicarsi delle richieste dopo la partecipazione di alcune teste rasate a un popolare talk-show. Lo spirito di contraddizione verso la società, la ricerca adolescenziale di non-omologazione avevano superato ogni previsione dei programmisti, nonostante l'intenzione di questi ultimi fosse "dimostrare l'inconsistenza ideologiIL CONTESTO ca e la natura violenta" degli ospiti. S'intende: non mancano voci equilibrate sui giornali o in tv, la cui utilità come strumenti di comprensione è fuori discussione. Però, nel complesso, il modo di trattare gli episodi di violenza legati amilitanti dell'estrema destra potrebbe facilitare il compito dei gruppuscoli, favorendone la trasformazione in rappresentanti di un'area significativa. Se ogni episodio di razzismo, in un paese ancora impreparato al suo futuro multiculturale, viene targato politicamente, il risultato è scontato. Il disagio sociale si colora, il pregiudizio si organizza, il razzismo diventa operativo politicamente, in breve: il paese rischia uno spostamento verso destra. Oggi non sembra proponibile l'invito al silenzio stampa che Marshall McLuhan fece ai giornali italiani durante gli anni di piombo, perché ignorassero le gesta delle Brigate Rosse per cancellarle dalla percezione collettiva, quindi dalla realtà. Ma non è fuori luogo chiedere un'informazione più consapevole. Tanto più di fronte a un mostro che si nutre delle grida di chi l'ha evocato. La giusta repressione dei comportamenti (i pregiudizi non sono perseguibili per legge) inammissibili per il nostro ordinamento è in atto. La legislazione penale offre numerosi strumenti, altri sono allo studio (anche se nessuno prevede interventi sociali di prevenzione, che invece in Germania fanno parte delle misure antinaziste). In ogni caso l'allarme è stato dato: ripetendolo troppo spesso perde senso ed efficacia. La mobilitazione antifascista - assolutamente positiva quando si concretizza in interventi educativi - non deve trasformarsi in un comodo pretesto per continuare ad amplificare in modo distorto gli atti di razzismo, con l'unico scopo di attirare l'interesse di lettori e spettatori. Anche le similitudini con la situazione tedesca possono essere inadeguate, se utilizzate per accentuare l'urgenza del caso italiano: il parallelo è scorretto per la storia dei due paesi, per il diverso carico di immigrazione, per le differenti situazioni economico sociali. Continuare a gridare al lupo per fare audience, insomma, non solo è fuorviante ma potrebbe davvero facilitare il lavoro ai lupetti nostrani, per ora ancora pochi e con zanne spuntate. Disegno di Michele Valdivia. _)"'- ~ ( ~'-<- 1-1;0 l'~LO<.dlÌO ~E t-!CMO~0 E ~j,lO,,_HiO ~,J • f\J..i:.i..,~ it.; -:..L.:i=. ~v

IL CONTESTO ANTOLOGIA Il loro rozzo antisemitismo Heinrich Mann a cura di Maria Teresa Mandalari Gli avvenimenti (non solo tedeschi) intensificatisi negli ultimi mesi a danno delle comunità ebraiche sospingono curiosità e interesse a verifiche e riscontri storici circa origini e motivazioni dell'intero rigurgito razzistico. È naturale che, innanzitutto, si risalgaper la Germania al periodo prebellico della repubblica di Weimar (anni venti.fino al fatidico 1933). Anche se situazione politica, panorama e strutture psico-sociali si sono, durante un sessantennio, variamente mutate, esistono però indubbiamente alcuni punti-chiave di natura storica e antropologica chepossono chiarire lati oscuri o controversi. Ed è altrettanto naturale che, a tale scopo, si interroghi - al di là di ogni differenza di approccio e di scrittura - la migliore saggistica epubblicistica di un'epoca in cui questa ancora rappresentava un valido punto di riferimento e di appoggio nell'evoluzione delle idee, nella formazione dello spirito pubblico e quindi nell'incidenza giudicante suifatti. Heinrich Mann (1871-1950), noto (purtroppo) da noi quasi unicamente come autore de L'angelo azzurro (tratto, come si sa, dal romanza Il professor Immondizia), è stato oltre che fecondo narratore uno degli scrittoripiù appassionatamente epuntigliosamente assidui e moralmente coinvolti per il suo alto spirito civile nell'osservare, giudicare e descrivere in un gran numero di saggi (mai tradotti in Italia ma di cui l'editore Marietti sta preparando una raccolta)gli avvenimentipolitici del suo tempo: conun'acribia e spregiudicato senso di responsabilità che, uniti a virulenta schiettezza constatativa, gli hannopoi in seguitofruttato un 'umilianteprecarietà esistenziale in Usa,nei rimanenti diciassette anni di esilio dopo il '33. Nella grande famiglia dei Mann, l'unico soggetto ebraico era la mogliedi Thomas, Katia Pringsheim, eper derivazione i sei.figli della coppia. Heinrich, personalmente, non avrebbe avuto nulla da temere:se nonfosse stata appunto la suaprecoce e decisapresa di posizione politica nei confronti dei nuovi dominatori, fin dagli inizi (putsch del 1923). Era inoltre una vecchia conoscenza del capitalismo imperialistico guglie/mino, quasi per nulla scalfito dall'avvento della repubblica weimariana, da quando nel 1914 aveva pubblicato il famoso romanza Il suddito ( da noi: Einaudi, 1955), ritenuto non a torto unodei libri più coraggiosi del secolo. E i successivi saggi e scritti (come anche quello che di seguito proponiamo) proseguono con estremo acume l'indagine antropologica della Germania, recentemente ripresa - sulla falsariga della insicurezza - da Norbert Elias (in I tedeschi, lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secc. XIX e XX, Bologna, Il Mulino, 1991). Heinrich Mann presidente dell'Accademia delle Arti a Berlino, ne viene estromesso nelfebbraio 1933, subito dopo l'incendio del Reichstag. Fatto oggetto di minacce, prese la via dell'esilio. Nel maggio, ebbe luogo il rogopubblico dei libri, e nemmeno i suoi vennero naturalmente risparmiati. Si rifugiò a Nizza e lì tra il marza e il settembre scrisse una serie di saggi - tra cui lo scritto qui riprodotto - che, uniti ad altri già usciti su riviste antifasciste straniere, composero il volumetto intitolato Der Hass. Deutsche Zeitgeschichte (L'odio. Storia tedesca contemporanea), ripubblicato a Berlino-est nel 1983 (Aujbau Verlag). Allora, il libro era uscitoprecedentemente inedizionefrancese aParigi da Gallimard e poi subito in tedesco nello stesso anno presso quel Querido VerlagdiAmsterdam resosigià benemerito per lepubblicazioni di letteratura antifascista. (M.T.M.) a I tedeschi odiano gli ebrei. Quantomeno credono alle parole dei loro capi, che strombazzano l'antisemitismo come una conquista tedesca. I tedeschi compiono adesso contro la propria minoranza ebraica azioni con cui innanzitutto nuociono più che altro a se stessi. Perché in tal modo incorrono nel disprezzo, che è assai peggio dell'essere odiati. In realtà, i tedeschi sono l'ultimo popolo che abbia diritto a odiare gli ebrei. Sono troppo simili a loro. Anch'essi infatti, come singoli, si fanno notare attraverso i loro "grandi uomini". Come singoli, superano spesso il valore della loro nazione. "La Germania è nulla, ciascun tedesco è molto", dice Goethe, il cui centenario è stato ancora per l'appunto celebrato prima che in Germania esplodesse la barbarie. Oggi, il più grande dei tedeschi sarebbe stato semplicemente ignorato, perché da lui a Hitler non esiste via alcuna. Da tempo è stato notato che sia tedeschi che ebrei ritengono di essere il popolo eletto. Bisognerebbe però chiedersi ciò che questo significhi e quali siano i retroscena di una tale esagerata autoaffermazione. Non è indizio di una effettiva sicurezza interiore. Quando taluno fa molto chiasso su se stesso, in nove casi su dieci il motivo è da ricercare nel fatto che dubita di sé- il che non è un difetto. Il dubbio può essere fecondo, non bisognerebbe reprimerlo. La storia in gran parte infelice, tanto degli ebrei come dei tedeschi, è stata, in tutto e per tutto, fonte di riserve sul loro carattere. Da ciò deriva l'autoironia ebraica: cos'altro mai, infatti, è la loro famosa mordacia! Nei tedeschi, invece, il "complesso d'inferiorità" viene "supercompensato" in altro modo, e cioè attraverso l'arroganza del comportamento. E dov'è che si manifesta maggiormente tale arroganza? Nelle parti orientali del paese, dove meno che mai si dovrebbe parlare di nazione, e in particolare di razza: perché tutto l'oriente, la vera e propria Prussia, è abitata dai discendenti di stirpi slave, e ancora due o trecento anni fa vi si parlava ben poco il tedesco. In effetti, invece, è proprio quella la sede del nuovo nazionalismo razzistico. E da germano si va presentando anzitutto chi non lo è stato nemmeno in epoca preistorica. Anche l'antisemitismo, del resto, non ha avuto il suo focolaio nell'antico territorio di cultura tedesca, e non è certo di là che ha preso le mosse in epoca contemporanea, quanto piuttosto dalle province. che un tempo sono state area di colonizzazione interna. Il che non impedisce che, alla fine, ne venisse contagiata l'intera Germania, esattamente com'è accaduto con l'imperialismo guerriero, venuto anch'esso dalla Prussia. Quando un individuo civilmente raffinato convive con uno più rozzo, chi dei due avrà influenza sull'altro? La risposta purtroppo è tassati va in partenza,'almeno nella maggior parte dei casi. È meglio non indagare più oltre: l'antisemitismo tradisce un difetto di equilibrio interiore in una nazione, esattamente come avviene con quell'ingiustificato e violento imperialismo che alla fine ha condotto la Germania ad una così infausta guerra. Fin dagli anni precedenti al 1914 infatti, l'Inghilterra veniva odiata da molti tedeschi, proprio come accade ora con gli ebrei, rei di togliere di nuovo ai tedeschi il loro posto al sole, come essi credono. Io non ho potuto far altro che compatire sempre i miei compatrioti per tale loro infelice passione, di provare cioè odio per gli altri sol perché, a parer loro, erano privilegiati dalla fortuna. Personalmente, come scrittore, ho avuto alcuni coetanei che hanno goduto di un successo maggiore del mio: odiati non li ho mai, e quand'era possibile li ho ~oltanto ammirati. Ma io peraltro appartengo ad un'antica famiglia della vecchia Germania, chi ha tradizioni è al sicuro da sentimenti distorti. La tradizione favorisce la conoscenza, e rende inclini a scetticismo e mitezza. Solo gli arrivisti si comportano talvolta come i selvaggi. A guerra perduta non rimase ai tedeschi, sul momento, prospettiva alcuna di poter mettere ancora una volta alla prova su altri

il loro falso amor proprio. Furono costretti a cercare all'interno l'oggetto su cui vendicarsi, e trovarono gli ebrei, che a sentir loro erano estranei al paese e·non potevano venir assimilati. Naturalmente, non è dato comprendere perché proprio gli ebrei, i cui antenati erano già arrivati in gran numero nel paese fin dal Medioevo, eppure non dovevano esser ritenuti altrettanto tedeschi di quegli slavi che sono stati accolti molto più tardi. Senonché, le obiezioni razionali non contano, quando si ha assolutamente bisogno di un nemico. Sessantacinque milioni contro 570.000 rappresentanti di cosiddette stirpi aliene: d'una azione nobile non si tratta, certo, e nemmeno dell'espressione di una effettiva fiducia in se stessi. Per quante volte ciò sia stato ripetuto, non ha mai sortito effetto alcuno. Gli ebrei devono a tutti i costi rappresentare un pericolo, per l'economia tedesca e in particolare per l'anima tedesca. "Il denaro che portate all'ebreo, è perduto per l'economia tedesca": è così che i nazionalsocialisti vittoriosi motivano il boicottaggio dei negozi ebraici. Ad una assurdità così evidente non riescono a credere nemmeno loro. Ma qui non si tratta certo di constatare una verità, bensì di stabilire un pretesto a discarico dei propri sentimenti malvagi, e di altri raccordi interiori, gli unici che siano riscontrabili. Il mezzo milione d'israeliti infatti aumenta fino a cinque milioni se si conteggiano tutte le famiglie di sangue misto. Non uno di tutta questa massa di gente ha, in avvenire, accesso alla pubblica amministrazione, alle professioni legali, al commercio o alla finanza. Non possono presentarsi in nessun luogo, il che in realtà significa che devono morir di fame. Un metodo altrettanto semplice quanto efficace per liberarsi di una eccedenza di popolazione! Niente di male poi se, in tal modo, ne venga avvelenato un popolo intero. I nazisti non avrebbero conquistato mai questo popolo se non si fossero serviti dell'odio. L'odio è stato per loro non soltanto il mezzo per affermarsi, è stato anche l'unico "contenuto" del loro movimento. Odiare la repubblica e rovesciarla, per impadronirsi interamente del potere. Anno per anno hanno fatto credere al popolo che ciò sia "nazionale", chiamando la repubblica una "repubblica giudaica" semplicemente per rendere ad un tempo odiati entrambi, sia la repubblica che l'ebreo. È un onore per gli ebrei che il loro nome venga collegato ad un tentativo di regime umano e liberale: perché questo è stato la repubblica, malgrado tutte le sue manchevolezze. Quali ebrei vengono perseguitati maggiormente dai nazisti trionfanti? I lavoratori intellettuali; e anche questo sarebbe un onore qualora gente stupida in preda agli istinti come questi nazisti fossero, peraltro, in grado di onorare qualcuno. Se davvero, fintanto eh' era consentita una libera scelta, la maggioranza dei legali berlinesi era ebraica, tale circostanza doveva avere certo buoni motivi, fondati nel tessuto sociale della metropoli e che non potevano essere eliminati. Gliebreierano indispensabili, lo sarebbero tutt'oggi seesistesse ancora un'amministrazione della giustizia. Gli ebrei erano assolutàmente necessari in molti campi. Per qual ragione il tedeschissimo chirurgo Sauerbruch aveva sette assistenti ebrei e non volle cederli nonostante l'ordine del governo nazionale? Da dove venivano, inoltre, i tanto ammirati direttori d'orchestra ebrei? La musica è ritenuta la più tedesca delle arti, e trai suoi più brillanti e fedeli interpreti vi sono in proporzione molti ebrei. D'altronde, il primo regista in Germania è indubbiamente Max Reinhardt. Il teatro dell'ultimo quarto di secolo costituisce un'effettiva gloria del nostro paese e della sua capitale, ma senza Reinhardt la sua storia è inconcepibile, forse non esisterebbe nemmeno senza di lui. A costui, adesso, è vietato di fare regia e ai direttori d'orchestra di dirigere.( ...) Ciò che condanna i "rivoluzionari nazionalisti" è il fatto che non si trovino in nessun rapporto con i valori interiori della ILCONTESTO Germania. Non amano questo popolo, altrimenti non vaneggerebbero sulla sua anima, ma la rispetterebbero in coloro che hanno tentato di dar voce e forma a quest'anima. Ma essi non rispettano nulla di ciò che di nobile e forte la Germania ha espresso. A cominciare da Goethe, tutto è in contrasto ed estraneo ad essi; e nelle biblioteche, che adesso dovranno esser ripulite secondo i loro criteri, non vi sarà di conseguenza più posto pernessuna delle immortali opere tedesche.( ...) Con tale assoluta assenza di rapporto e tale vuoto si spiega l'odio contro gli ebrei. Le massime conquis(e dello spirito son dovute, a sentire Hitler, soltanto al popolo germanico di razza pura; e ciò vien dichiarato dinanzi ai medièi, una classe di ascoltatori che dovrebbe essere informata sulla validità del sangue misto nell'origine del talento. Così dichiara Hitler, mentre il genio oggi è noto soprattutto attraverso il nome di Einstein! "Quanto si sminuisce un popolo quando scaccia il genio!" proclama uno scienziato francese: perché Einstein in avvenire non avrà più cattedra a Berlino, ma solo a Parigi. Gli ebrei tedeschi hanno molto da patire. Se questo può rappresentare un conforto, vorrei dir loro che non hanno da sopportare più dello spirito tedesco e della stessa anima tedesca, a loro sempre cara. Gli ebrei hanno partecipato sempre tanto dell'uno come dell'altra e li hanno diffusi ovunque. Sono stati una delle parti più sensibili del popolo, hanno sempre affrontato lo spirito creativo tedesco con autentico rispetto, se ne sonpresi cura e l'hanno aiutato. Noi dobbiamo esser loro grati: questo vorrei oggi dichiarare qui, nel momento in cui sia loro che noi veniamo perseguitati. (...) Tredici milioni di ebrei sulla terra parlano un dialetto derivato e comunque commisto alla lingua tedesca. In alcuni paesi in cui nessuno comprende il tedesco, gli ebrei custodiscono la propria cultura tedesca e l'avvertono come una particolare distinzione. Ogni altro popolo, ad esclusione di quello tedesco, trarrebbe il massimo vantaggio da questo fatto; ma la Germania non vuole farlo. Quei medesimi ebrei che vantano in tutto il mondo la Germania come loro seconda patria, vengono in questa stessa dichiarati un valore scadente, non possono occupare uffici pubblici, ma è consentito assassinarli o malmenarli, se proprio non si è di buonumore e ci si limita a far loro strappar l'erba coi denti sulla pubblica piazza ... Non so quale sia la cosa che possa maggiormente indignare ogni cuore sensibile, se le atrocità oppure lo scherno, di cui son fatti oggetto. Pogrom e boicottaggi vengono organizzati come spassi pubblici per il popolo, e quest'è anche l'unico scopo pratico. All'economia tedesca le persecuzioni ebraiche arrecano poca utilità, e lo stesso dicasi per il buon nome tedesco. Ma una folla degradata, a cui è consentito di spassarsela tormentando le persone, dimenticherà per qualche tempo ch'essa stessa resta misera come prima e che gli avventurieri pervenuti al potere non hanno nulla, ma proprio nulla da offrirle. Dopo, la colpa non sarà di nessuno. Gli assassinii sono ogni volta opera di comunisti, che si son travestiti da nazisti. Ma intanto agli ebrei, che a quanto pare si vorrebbero eliminare, viene impedito di lasciare il paese, ed essi son costretti c~mlettere e telegrammi ad informare l'estero che tutte le loro disavventure non sono in sostanza mai avvenute. Le forzate menzogne vengono poi, naturalmente, accolte dal mondo com~ meritano; ma il disprezzo che cagionano ricade sulla Germania. . Tutto ciò è imperdonabile e tale ri~arrà. Il pae~e pe~ la e~ cultura e costumi tutti abbiamo lavorato, 11paese d cm patnmomo spirituale è stato arricchito anch~ con_lemit: forze,vi_enedegradato da gente priva di scienza e d1coscienza, 1mbarban!oe messo in una condizione che nemmeno una sconfitta dati esterno e neppure la frantumazione dello Stato è in grado di provocare. È, oramai, consegnato al disprezzo. (1933)

IL CONTESTO ì. Gli impiegati e i loro figli Una storia che riguarda il '68 e anche il '93 Luigi Bobbio e Mariuccia Salvati Il saggio di Mariuccia Salvati (Il regime e gliimpiegati. La nazionalizzazione piccolo borghese nel ventennio fascista, Later_za,pp. 268, L. 30.000) sull'impiego pubblico sotto il fascismo è molto importante per capire anche quello che è venuto dopo. Lo ha recensito su "L'Unità" · Luigi Bobbio, avanzando obiezioni sull'interpretazione che ne deriva del movimento del' 68 come "rivolta contro i padri", e in particolare quei padri, il ceto medio del pubblico impiego. Questo ha dato luogo a uno scambio di lettere tra i nostri due amici che ci è parso di grande interesse per capire meglio la nostra storill contemporanea, il passato prossimo, la generazione del '68 e le sue forze e debolezze, ma anche la nostra crisi presente e il nostro stesso futuro. La recensione di Bobbio è apparsa su "L'Unità" del 16.11.92. Il sessantoNo del catasto Luigi Bobbio In un momento in cui ci si interroga sul senso della nostra unità nazionale, giunge del tutto a proposito il libro di Mariuccia Salvati sugli impiegati pubblici nel regime fascista. In realtà questo lavoro è il frutto di una ricerca storica iniziata molti anni fa, quando la disunità d'Italia non era ancora all'ordine del giorno. Ma la scelta interpretativa dell'autrice si rivela oggi di straordinaria attualità. G!i impiegati pubblici sotto il fascismo sono visti infatti come caso emblematico e punta emergente della nazionalizzazione culturale operata dallo stato e dal regime; il veicolo di una cultura comune, uniforme, diffusa nel territorio nazionale, ma non necessariamente fascista, i cui effetti si faranno sentire a lungo nella storia italiana. 10 Anzi l'autrice sceglie esplicitamente di interrogare quella vicenda a partire da un episodio meno remoto: il movimento del '68. E si pone una domanda inconsueta: come è potuto accadere che alla fine degli anni Sessanta un linguaggio di contestazione culturale accomunasse di colpo tutta l'Italia superando fratture storiche e confini geografici apparentemente insormontabili? La sua risposta è che il movimento del '68, indubbia espressione delle classi medie, deve molto alla cultura impiegatizia dei padri, impregnata di un testardo rispetto per le norme e di una visione del mondo non provinciale, intrisa di reminiscenze classiche e di passione disinteressata per valori universalistici. Questi pezzi di cultura nazionale - osserva l'autrice - si potevano trovare dovunque tra gli anni Trenta e Cinquanta, a Melfi come a Bolzano, trasportati sul territorio nazionale al seguito dei frequenti rimescolamenti territoriali voluti dallo Stato fascista per i suoi impiegati. L'idea che il movimento del '68 abbia costituito una rivolta contro i padri in nome dei loro stessi valori non è nuova, ma in Italia è stata prevalentemente pensata con riferimento ali' antifascismo e alla resistenza. L'ipotesi, decisamente innovatrice, dell'autrice è quella di retrodatare questa influenza al periodo fascista e di collocarla non nelle bande partigiane, ma negli uffici del catasto, nelle intendenze di finanza, nelle preture o nei tribunali. Ma come si presentavano i pubblici impiegati in quegli anni? Attraverso l'esame di statistiche, documenti d'archivio, riviste sindacali, leggi e circolari, Mariuccia Salvati ci guida verso un'interpretazione molto netta: durante il fascismo hanno convissuto due burocrazie, contraddistinte non solo da culture distinte e contrapposte, ma anche da matrici geografiche e compiti funzionali diversi. La prima burocrazia è quella tradizionale dello stato, di origine Foto di Uliano Lucas.

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