Linea d'ombra - anno X - n. 77 - dicembre 1992

LUOGHIDI PARTENZA ormai del tutto al suo controllo, da cui - anzi -egli ormai dipende. Al cadetto-invece- !' arrivo del fratello maggiore faceva bruciare di più la frustrazione di cui quelli che restano' sono imbevuti, e gli riaccendeva il risentimento perché - in tutti questi anni -A. si è sempre rifiutato di portarlo in visita nella 'terra promessa'. Passavano i giorni senza notizie dell' atteso viaggiatore. La mia presenza era diventata abituale e una certa indifferenza sembrava circondarla. In quel tempo che si dilatava, cominciai a sentire il peso dell'assenza di comunicazione e dell'immobilità. Si parlava assai poco, sebbene tutti trascorressero l'intera giornata in casa: gli uomini sui divani della stanza da pranzo, le donne in cucina. La TV - tenuta accesa a volume alto da prima mattina a tarda sera- riempiva il vuoto afasico con le trame rassicuranti dei melodrammi a puntate di produzione egiziana. Delle brevi passeggiate strascicate ed alcune piccole commissioni erano gli unici diversi vi nell'attesa. Le mie timide proposte di una gita in città, il mio stesso desiderio di movimento, erano accolti con pigro stupore e lieve fastidio. I pasti erano abbondanti, rituali e silenziosi. Nelle lunghe giornate vuote di Z Z, tutte uguali e senza direzione, dove il lavoro maschile quasi non esiste- se non come lontano miraggio - mangiare è l'unica vera azione. Serviti dalle donne, che portano in tavola i semilavorati, gli uomini li trasformano a colpi di ganasce. Compiono così un'azione dalle finalità evidenti, innegabilmente ed immediatamente utile, anzi necessaria. Cercando di resistere alle soffocanti insistenze perché mangiassi di più, avevo l'impressione che l'atto di riempirsi la pancia fosse un surrogato del movimento, della comprensione, del lavoro; che fosse - insomma - un modo per riempirsi la vita. Col passare del tempo mi convincevo che, a parte la lingua, gli usi culinari ed il modo di stare a tavola, avrei potuto trovarmi - senza grandi differenze - in qualsiasi altra periferia africana, sudamericana od europea. A Z Z le specificità culturali sopravvivono come semplici abitudini. Non è un mondo chiuso su se stesso, né per ignoranza né per orgoglio; anzi, è un mondo che distoglie lo sguardo da se e lo protende altrove, verso un mitico centro. In questo senso profondo il quartiere dov'ero ospite è una 'periferia', simile a tante altre: un luogo che dipende da un altro luogo, dal punto di vista materiale ma - soprattutto-psicologico e culturale. Laggiù, così come immagino sia allo "Zen" di Palermo o nelle "favelas", si vive schiacciati dal miraggio di un centro che è il solo motore possibile nonché l'unica sede del movimento, e ci si dibatte nella prigione della percezione di se come eternamente immobili. La mobilità internazionale pone ad ugual distanza rispetto ai quartieri più attivi ed eleganti di Montreal, di Roma, o di Casablanca stessa. Questa distanza è infima od enorme, a seconda che ~i voglia solo vedere o anche - per così dire toccare. L'equidistanza delle periferie - tutte uguali - dai diversi centri - ciascuno con le sue spiccate individualità - crea una paradossale geometria dell'esperienza, che contraddice quella implicita nel linguaggio. Se in periferia la frustrazione non sfocia in disperazione, è perché viene compensata dall'attesa. A Z Z, in particolare, l'attesa ha due forme essenziali, due oggetti possibili; l'emigrazione o il ritorno di chi è emigrato. D'estate - con il ritorno in massa degli emigrati dall'Europa- la condizione cronica di attesa si risolve in un'eccitazione lacerante. Le famiglie si ricompongono in intrecci d' orgoglio e d'invidia, di euforia e incomprensione. Quest'anno il Grande Ritorno ha assunto proporzioni gigantesche e inattese. Dalla metà di giugno all'inizio di agosto, secondo fonti ufficiali spagnole, 120.000 veicoli e 550.000 persone sono state traghettate attraverso lo stretto di Gibilterra. La sorpresa l'hanno causata perlopiù i nuovi emigranti, quelli che negli ultimi dieci anni sono venuti a cercar fortuna in Spagna e in Italia; costoro - al prezzo delle vite di miseria che abbiamo davanti agli occhi - hanno accumulato rapidamente dei piccoli capitali, per i quali il primo ovvio investimento è l'automobile. La macchina, oltre ad essere lo status-symbol universale, può trasformarsi in un lucroso affare: infatti il mercato italiano dell'usato, reso anemico dalla nostra ossessione nazionale della macchina nuova, è forse il più conveniente d'Europa; d'altra parte in Marocco la domanda è in crescita impetuosa: taxisti e borghesia cittadina sono disposti a pagare 50% in più del prezzo d'aquisto. Il guadagno facile ed abbondante controbilancia in parte il fatto che chi lavora in nero in Italia non ha le ferie pagate. È così che al principio di agosto migliaia di macchine, targate Barcellona, Bergamo o Bordeaux, hanno invaso Algeciras, da dove salpano cinque volte al giorno i traghetti per il Marocco. In pochi giorni si è creato un ingorgo memorabile. Per gli ultimi arrivati il tempo medio di attesa era di quattro giorni, da trascorrere su una piazzola di sosta, senza cibo, con un unico telefono pubblico ad un'ora di marcia. Con la polizia spagnola che vegliava sulla carovana, dispensando provvidenziali docce e qualche manganellata, i marocchini d'Europa attendevano pazientemente di tornare a casa. Intanto, in patria, i giornali parlavano di "calvario" di. quegli automobilisti, che davano-con la loro perseveranza - una testimonianza viva di amore inestinguibile per il paese natale. Tra quelle migliaia di vetture arroventate c'era quella di A., che arrivò dunque con cinque giorni di ritardo sulla data annunciata. Il promesso sposo aveva perso quattro chili durante il viaggio; appariva stanco, ma calmo e sicuro, pronto a ricoprire con la dovuta autorevolezza il suo ruolo centrale nei preparativi e poi nella cerimonia. L'uomo che in quei giorni accompagnai in giro, a sbrigare le faccende necessarie in vista dell'evento, era ben diverso da quel giovane inquieto, studente frustrato e lavoraLATERRA tore precario che avevo conosciuto in Italia. Da allora nella sua vita si era prodotto un fatto davvero decisivo: dopo aver tagliato bruscamente i ponti con una coetanea con cui aveva una relazione dai tempi dell'università, il mio amico aveva accolto il pressante suggerimento paterno di sposare F., sorella minore della sua matrigna, una ragazzina di sedici anni, "bella come una principessa" secondo I' accorato giudizio del fratello dello sposo. Questa unione soddisfa rigorosamente i canoni della tradizione.L'età particolarmente bassa della sposa ed il legame parallelo del padre con la sorella costituiscono anzi delle peculiarità persino nell'ambiente del quartiere; appaiono quasi come garanzie supplementari della profondità dell'adesione del giovane emigrante alle regole consolidate. A. aveva già compiuto la sua scelta nel1'estate precedente quella della mia visita, con la firma del contratto di matrimonio. Nel cammino di chi emigra si incontrano biforcazioni nette che impongono di imboccare una sola delle strade possibili. A. avrebbe potuto cercare con successo una ragazza italiana, perché ormai il muro della marginalità l'aveva quasi demolito; anche la via del matrimonio "all'occidentale" in Marocco - con una ragazza moderna ed istruita - gli era spalancata davanti; eppure egli si è rime so nel solco profondo della tradizione. All'origine della decisione ci fu indubbiamente un atto di autorità del padre; tuttavia, se la sottomissione del figlio fu forse recalcitrante ali' inizio, ora egli si dichiara riconoscente di quella guida che gli ha impedito di sposare una "donna cattiva che gli avrebbe solo portato dei guai". Soltanto in certe sere afose, le perplessità residue emergevano e, siccome con me osava manifestarle, mi chiedeva con imbarazzo: "secondo te faccio bene a sposarmi?". Avrei voluto rispondere con una battuta a quella domanda che- a giochi ormai fatti - suonava decisamente oziosa. Invece replicavo compitamente: "certo che fai bene-se ne sei convinto ...". A. intuiva le mie riserve taciute e taceva a sua volta. In quei momenti sfioravamo il confine dell'amicizia, quello oltre il quale non c'è più condivisione e la comunicazione cessa. Il silenzio che si creava, però, era privo di tensione; c'era rassegnazione reciproca, se non proprio accettazione. I preparativi delle nozze si rivelarono più lunghi del previsto. A. decise di prendere un mese di mutua avvalendosi del parere disinvolto di un medico locale e la cerimonia - con i tre giorni di festa successivi - venne rinviata di due settimane. In famiglia davano per scontata la ~a permanenza, ma io esasperato ~ _reso fragile da quei giorni di tesa 1mmob1htà sognav~ ormai pasti frugali e solitari, lunghe c~- nate e tanta lettura. Partii, giustificandolDl con la necessità (a metà vera) del mio ritorno per tenere compagnia ad una ~ecc~a n~~- Se tutto fila liscio ali Ufficio Visti della nostra ambasciata, alla fine dell'estate gli sposini arriveranno qui. lo mi sto~ intorno in cerca di adatto a loro. È firu migratorio di A. e . e: E

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