1 6 VISTA DALLA LUNA ~ ~ Considerazioni <i: ...J di unabitantedel centroospitato in periferia Dino Ala Ho ventisei anni e vivo nel centro di una grande città del nord. Dal 1988 mi occupo di immigrazione: prima si trattava di un'attività assistenziale che svolgevo a titolo di servizio civile; adesso faccio un lavoro di ricerca. Durante questo periodo ho conosciuto tanti ragazzi stranieri venuti a lavorare quassù; abitiamo vicini, talvolta a pochi isolati di distanza, ma in due mondi separati. Solo con pochi tra costoro il legame si è consolidato, perché l'amicizia - pur se sorretta çlabuone dosi di curiosità e di slancio solidaristico - fatica a scavalcare le differenze materiali. Uno di questi pochi si chiama A., ed è un mio coetaneo, marocchino. La sua è un'ordinaria storia di emigrazione che incomincia quando, dopo due anni di università nel suo paese, vinse una borsa di studio che gli aprì le porte dell'Europa. Visse in Francia per due intensi anni, finche una serie di casi sfortunati - appesantita forse da un'ondata di svogliatezza - lo fecero deragliare da quel comodo binario. Fu costretto a venire in Italia a cercare lavoro. Sono passati tre anni da allora ed oggi A. "è in regola", affitta una stanza insieme ad un amico e conterraneo, e lavora come operaio specializzato nella cintura cittadina (proprio adesso, per la verità, è in cassa-integrazione a tempo indeterminato). Poco prima dell'estate ha fatto un discreto affare comprando una macchina rossa, seminuova; con essa - ai primi di giugno-'----è andato un giorno al mare in compagnia di amici; quella gita costituì ai miei occhi il primo atto di una 'vera vita' qui. E soprattutto nel tempo libero che si misura la fantomatica 'integrazione'. A. non ha il telefono e di solito la sera è morto di stanchezza. Io d'altra parte sono un po' geloso della mia ordinaria vita sociale, variegata in superficie ma in fondo assai omogenea. Per queste diverse ragioni, ci vediamo di rado e la comunicazione ne soffre in rigidezza e ripetitività. Nel contempo, però, la distanza sociale che ci separa induce - entrambi credo - ad un esame di se distaccato: riusciamo ad arrivare l'uno all'altro solo rendendo esplicito ciò che normalmente diamo per scontato, nel nostro ambiente quotidiano e con noi stessi. Pensandoci, credo che sia proprio su questo terreno accidentato che ha attecchito una stentata amicizia. . Qu~st ' e st ate avevo in programma un soggiorno mMarocco e sapendolo A. mi invitò a fargli visita in occasione del suo ritorno annuale a casa, nel mese di agosto. Questa volta il rimpatrio aveva una ragione speciale: il matrimonio - deciso l'anno precedente - con una ragazza di laggiù. Durante una passeggiata serale, il mio amico mi aveva mostrato la sua fotografia, custodita nel portafoglio: un viso pieno e morbido dai contorni ancora provvisori, dei grandi occhi stupefatti; insomma, l'avreste detta una bambina! Ha sedici anni, mi rivelò il futuro sposo con imbarazzo. Ero perplesso ed incuriosito, ma in quell'occasione non potei capire di più. Mi trovavo in Marocco già da un mese ed il mio coetaneo marocchino era ancora in Italia, quando decisi di approfittare di un finesettimana per andare a far visita alla sua famiglia. Con sorpresa, seguendo le indicazioni per la casa, giunsi a Z Z un quartiere di residenze popolari costruito in blocco al principio degli anni '80, alla periferia estrema di Casablanca. Si tratta di uno schieramento compatto di edifici, che occupa un quadrato di circa un chilometro di lato. La cité, come si definisce un tal genere di escrescenza autonoma della città vera e propria, ne è separata da una larga fascia di terreno desertico dove si ammassano i rifiuti e pascolano le mandrie di ovini. Là, di notte, si aggirano i branchi di cani randagi ed i "briganti" stanno in agguato; per i bambini di Z Z è proibitissimo avventurarvisi. La scoperta di una tale desolazione mi sconcertò perché, conoscendo A. e nonostante la sua laconicità a questo proposito, mi ero convinto che egli venisse da una famiglia borghese benestante e mediamente istruita, forse quella di un piccolo funzionario statale. Invece il padre è un robusto sessantenne, stiratore di formazione, che aveva raggiunto il ruolo di caporeparto in un'industria di confezioni quando è andato in pensione tre anni fa. Sotto la sua ferrea autorità - più esibita che reale - vivono in cinque, senza contare il figlio lontano. C'è la giovane moglie, sposata quattro anni fa dopo un breve periodo di vedovanza dalla prima consorte; la madre di quest'ultima: minuscola e pia vecchia assai rispettata; i due fratelli maschi di A., M. e H., che hanno rispettivamente diciotto e quattordici anni; e, infine Finfuocata e indipendente F., nata tre anni fa dalla seconda moglie. LUOGHI DI PARTENZA Sono in sei, dunque, senza un reddito da lavoro e con il mutuo dell'alloggio da pagare. "Perlomeno abbiamo una casa", dicono di loro stessi. E questo è in effetti tutto il loro patrimonio, ciò che li distingue dai "poveri", ossia "quelli che vengono dalla campagna" e vivono nelle distese di baracche fatte di blocchi di cemento e lamiera, situate poco lontano. Ma ci si accorge in fretta che il bene più prezioso della famiglia, in realtà, è proprio A., il figlio primogenito, su cui si è investito per consentirgli di tentare la strada dello studio, prima, e dell'emigrazione, poi. Oggi l'investimento comincia a rendere in rimesse e regali di prestigio come - quest'anno - il videoregistratore e l'agognata mountain-bike. Forse.il divario sociale e culturale tra il mio amico e la sua famiglia, che inizialmente mi aveva sorpreso, si spiega in parte con una politica economica familiare di concentrazione delle risorse sulla sua persona. La prima visita, di presa di contatto, durò soltanto due giorni. Alla fine della settimana successiva, però, ritornai a Z Z ; questa volta portavo tutto il mio bagaglio in un grande e pesante zaino rosso che attirava tutti gli sguardi mentre arrancavo per le strade polverose. La casa dove venni ospitato ha un'unica camera da letto, quella dei genitori. Gli altri dormono sui divani addossati alle pareti, nella stanza da pranzo o nel soggiorno. Io mi sistemai in un comodo angolo di quest'ultima stanza. Come di consueto in una casa araba, non vi era separazione tra spazio notturno e diurno, né tra ambienti individuali ed ambienti collettivi. È un modo di abitare che ha radici profonde, culturali, e non si spiega semplicemente con le dimensioni ristrette dell'appartamento. Io, europeo assuefatto alla privacy, sentii emergere ben presto la fatica del vivere collettivo. Era previsto che A. arrivasse un giorno dopo di me. Si sarebbe udito un rombo e l'automobile carica di meraviglie avrebbe fatto la sua apparizione nello spiazzo di terra battuta, davanti alle finestre di casa. L'attesa era carica di sentimenti diversi. V'erano emozione e curiosità mischiate all'inquietudine per il lungo viaggio in macchina da solo; quest'ultima ovvia preoccupazione era accresciuta, nel caso in questione, dal fatto che A. era privo di patente e totale autodidatta nella guida: per evitare le lungaggini ed i costi dell'esame aveva fatto ricorso allo stratagemma di denunciare alla polizia italiana lo smarrimento di un'inesistente patente marocchina ed ora viaggiava munito solo di quel verbale di denuncia, con l'intenzione di comprare il permis de conduire da un funzionario compiacente, una volta giunto in Marocco. La paura - sempre taciuta - di un incidente si sommava all'ansia per gli imponenti preparativi che il matrimonio esigeva. Inoltre, soprattutto nel padre e nel figlio diciottenne, intuivo la presenza di una causa supplementare di tensione. Per loro-gli altri due maschi adulti della famiglia - l'arrivo del primogenito a bordo del segno tangibile della sua riuscita non era soltanto una fonte di orgogliosa gioia. Per il padre significava confrontarsi con una autoritf nuova che sfugge
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