Linea d'ombra - anno X - n. 77 - dicembre 1992

14 VISTA DALLA LUNA <I'. ~ ~ ~ <I'. ....J re), emblema di uno Stato chiuso, affermazione forte dell'abbandono della via costituzionale. 9. L'opzione del Direttore Generale non è né isolata né originale, e rappresenta semmai il punto d'approdo di un atteggiamento culturale largamente diffuso, e non solo all'interno dell' Amministrazione, almeno a partire dal momento in cui il problema dello straniero delinquente venne a porsi all'attenzione della politica criminale del nostro Paese. Di là dagli aspetti letterari connessi ai temi consueti dell'immigrazione (povertà, carestia, dittature del Terzo e Quarto Mondo, impiego della mano d'opera criminale d'importazione da parte di organizzazioni nazionali a più alto livello) molto è stato detto e scritto circa le motivazioni del1'"immigrazione criminale" nel nostro Paese. Illuminanti, per i riflessi anche pratici che avrebbero in seguito orientato, paiono i risultati di una ricerca commissionata dal Ministero di Grazia e Giustizia a un'Università del Sud a metà degli anni '80, e dunque nel periodo immediatamente precedente i primi grandi flussi migratori. Procedendo ad indagine sociologica su un campione di detenuti, i ricercatori dividono in due categorie i delinquenti stranieri in Italia: quelli che provengono dai paesi poveri e quelli che provengono dai paesi ricchi. Secondo la ricerca, gli uni e gli altri si spostano dal paese d'origine nel nostro paese all'espresso scopo di delinquere. La devianza degli stranieri non è frutto di un disorientamento dovuto alla difficile integrazione o alla miseria o alla disperazione, ma nasce da una precisa attitudine originaria: in altri termini, un'estensione del vecchio concetto del "delinquenti si nasce" al più ampio contesto della comunità sovranazionale. Ne deriva che il delinquente da esportazione si porta appresso, dovunque finisca per approdare, il carico deviante della propria cultura d'origine. Pertanto, tutti costoro in Italia non ci vengono per caso, ma in base ad un preciso calcolo: i poveri perché convinti che la nostra società sia più permissiva, i ricchi (nordamericani, paesi CEE) perché certi della minore capacità repressiva delle nostre istituzioni. In sintesi, lo straniero viene volentieri a delinquere in Italia perché l'immagine internazionale del nostro Paese lo stimola a tentare l'av- .ventura. Da siffatte premesse vengono tratte le conseguenti conclusioni che: per limitare i danni occorre aumentare le pene, magari stabilendo un criterio di collegamento tra il tempo di residenza e il delitto commesso: come dire che lo straniero che faccia uno scippo appena sbarcato in Italia dovrà essere condannato a una pena più severa di quello che commetta lo stesso reato dopo due mesi dal suo arrivo. Il tutto con il consueto contorno di raccomandazioni sulla necessità di sbarrare le frontiere, limitare gli ingressi, e così via. Oggi si tende a risolvere il problema in modo più sbrigativo, con le espulsioni sommarie, ma sempre e comunque nel quadro di interventi "mirati" a limitare le garanzie giurisdizionali nei confronti dello straniero. 10. Un interessante esempio della disapplicazione della riforma penitenziaria nei CARCERE E IMMIGRAZIONE confronti dello straniero è fornito dalla triste, annosa vicenda delle telefonate. Sul finire degli anni '80, in seguito a certi clamorosi fatti di cronaca, si diffonde nel circuito carcerario la paranoia del terrorismo mediorientale. Con una draconiana circolare, l'Amministrazione detta regole severe per i colloqui telefonici tra i detenuti stranieri e le proprie famiglie. L'assunto è che ogni detenuto straniero, specie se arabo, è un potenziale terrorista: dunque si dispone che tutte le conversazioni telefoniche con i familiari siano registrate e tradotte. Poiché, peraltro, non si riescono a reperire traduttori dall'arabo all'italiano, di fatto agli stranieri è inibito qualunque contatto telefonico con le proprie famiglie. Senonché la legge penitenziaria, che, come abbiamo visto, non conosce limitazioni in ordine a razza e nazionalità, individua proprio nel rapporto tra il detenuto e il suo mondo affettivo d'appartenenza uno dei punti cardine della rieducazione. Per questo motivo il colloquio con i familiari è, per il detenuto, un vero e proprio diritto. La legge fa naturalmente riferimento al colloquio visivo, ossia alla visita dei parenti, stabilendo che si può ricorrere alla telefonata solo in via sussidiaria. Ma l'optional diventa diritto quando sia accertata l'impossibilità di un contatto diretto. Per gli stranieri detenuti a migliaia di chilometri da casa, per gli stranieri poverissimi, la telefonata è l'unico momento di contatto con la famiglia: dunque, è per loro un diritto. Impedendogli di telefonare, si viola la legge penitenziaria, e si tagliano fuori gli stranieri dalla rieducazione. E poiché una circolare, che è atto intèrno, non può modificare in senso peggiorativo una legge dello Stato, molti magistrati di sorveglianza, disapplicandola in quanto illegittima, continuano ad autorizzare le telefonate agli stranieri. Si sviluppa così un grottesco balletto: le direzioni carcerarie, strette tra l'incudine del rapporto gerarchico e il martello del!' ordine di giustizia, talora oppongono un'elegante "fin de non recevoir" al comando del magistrato, e in qualche caso, adeguandosi obtorto collo, invitano il giudice a provvedere alla traduzione. Basterebbe poco per risolvere il problema: si potrebbe, ad esempio, concentrare le conversazioni ed affidarne sbobinamento e traduzione a pochi periti scelti dal Ministero. Senza contare che gli aspiranti terroristi potrebbero tranquillamente prendere contatti eversivi nel corso dei colloqui visivi (ben più pericolosi perché la legge vieta alle guardie di stare in ascolto), o tra loro in cella, o nelle gabbie in tribunale, ai processi, o tramite funzionari d'ambasciata, o legali di pochi scrupoli. Qualche magistrato cerca di aggirare l'ostacolo senza scatenare polemiche con la concessione di brevissimi permessi "ad horas", ma non sempre l'espediente è realizzabile. Sul punto si pronuncia il Consiglio Superiore della Magistratura: spetta all'Amministrazione, nell'ambito degli interventi volti a garantire il diritto alla rieducazione, il compito di farla eseguire, e quindi di reperire i traduttori, pagarli, e via dicendo. Il Direttore Generale Amato ha suggerito di risolvere il problema senza bisogno degli interpreti "che di

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