SCUOLA E IMMIGRATI LA TERRA S La scuola nella società multiculturale e gli sprechi di risorse umane e finanziarie Sergio Kraisky La società multinazionale e multiculturale fa ormai parte dell'immaginario collettivo sotto forme diverse: incubo o speranza, prospettiva utopica, realtà già in atto o futuro inevitabile. Egoismi ancestrali e istinto di solidarietà, con le relative retoriche dei buoni o dei cattivi sentimenti, si accavallano in un panorama confuso, dominato più dalle emozioni che dal l'informazione e dall'analisi attenta dei problemi, mentre i flussi migratori dal sud e dall'est del mondo procedono seguendo la loro logica inarrestabile. Fenomeni che condizionano sempre più la politica internazionale e in modo particolare quella europea. In questo quadro contraddittorio almeno una certezza sembra acquisita: la coesistenza tra culture diverse non è pensabile senza un intervento energico e qualificato del sistema scolastico. La scuola non può certamente essere l'unico luogo preposto a questo compito, se si vuole giungere a un confronto creativo tra diverse culture, ma senza dubbio rappresenta uno dei cardini principali di una politica di "inclusione" non forzosa della popolazione immigrata. Eccone le ragioni: L'insegnamento della lingua come principale veicolo di comunicazione e in parte anche di sopravvivenza dell'immigrato può realizzarsi in forme adeguate solo nella scuola. La scuola viene percepita come un luogo preposto allo studio e alla cultura in ogni parte del mondo. È così possibile scoprire il rapporto tra differenze linguistiche e specificità delle diverse culture, ampliando il confronto oltre i confini dello studio della lingua. Nella scuola il confronto tra immigrati di differenti nazionalità viene favorito dal comune bisogno di conoscenza della lingua italiana. Al di fuori della scuola è ormai accertata la tendenza delle comunità degli stranieri a chiudersi al loro interno. Per citare il solo dato di Roma e provincia, nell'anno scolastico 1990/91 hanno frequentato la scuola statale del l'obbligo I 676 bambini provenienti da famiglie di immigrati da paesi in via di sviluppo, nomadi esclusi. (Dati del Provveditorato agli studi di Roma). L'analisi dei dati consente anche di valutare il grado di scolarizzazione dei bambini delle diverse comunità, un importante indicatore della differente propensione ali' integrazione da parte delle comunità straniere. Alla luce di questa nuova realtà è evidente che i programmi scolastici vanno rivisti in una prospettiva interculturale, spesso evocata ma ancora poco definita. Un consistente numero di immigrati adulti frequenta corsi di alfabetizzazione e formazione linguistica nonché corsi di scuola media/150 ore. Sempre secondo dati forniti dal Provveditorato agli studi di Roma si calcola che nel!' anno scolastico 1991/92 si sono iscritti ai corsi di alfabetizzazione e lingua italiana circa 500 stranieri e circa 450 ai corsi di 150 ore. Si tratta di dati approssimativi perché il flusso delle frequenze è irregolare, spesso saltuario, a differenza di quanto accade per i minori tenuti alla frequenza obbligatoria. La scuola diventa così luogo dove si incontrano gli immigrati della prima e della seconda generazione. Coinvolgere i genitori, o comunque gli adulti delle comunità degli immigrati, nel processo educativo dei minori è un passaggio fondamentale di una politica di integrazione. Politica della differenza e mercato socioculturale Per utilizzare pienamente le risorse materiali e umane della scuola è prima necessario chiarire a quali orientamenti politici e pedagogici ispirarsi. Non c'è dubbio che la cultura dominante nelle democrazie occidentali tenda oggi a privilegiare i valori "liberali" della individualità, del diritto all'identità, alla differenza, secondo una certa tradizione anglosassone, piuttosto che i valori dell'uguaglianza, come modello, come norma a cui tendere, a cui uniformarsi. Lo stesso fallimento della società multiculturale intesa come "melting pot" e il suo configurarsi piuttosto come un'insalata mista, il "salad bowl", dimostrano una propensione collettiva verso una tolleranza radicale. Una sorta di pluralismo indifferenziato di stili di vita, tanto "aperto" e tollerante quanto indifferente a qualunque tentativo di confronto sui contenuti di un'etica collettiva, e quindi estraneo a tentativi di sintesi creativa - e non di pura curiosità turistica - tra culture diverse. Una concezione lontana dal!' integrazione intesa come processo nel quale, pur persistendo l'influenza di una cultura dominante, questa stessa cultura dimostra di essere disposta a perdere alcuni dei suoi connotati per accoglierne di nuovi fino a quel momento estranei, oppure perduti nel corso del "disincantamento del mondo" tipico dell'Occidente. Sergio Kraisky (Roma 1950) sociologo, da molti anni si occupa di problemi dell'immigrazione dal Terzo Mondo. Insegna dal 1983 a Roma in corsi statali di alfabetizzazione e lingua italiana per stranieri. Sembra piuttosto che questa tolleranza, questo pluralismo radicale, considerino il mercato come l'unico collante capace di garantire una convivenza sostanzialmente, seppure non totalmente, pacifica, traendo stimolo e arricchimento da questa diversificazione, da questa varietà di stili di vita con relativa propensione al consumo. Gli stessi megaconcerti rock, ispirati al motto che "bisogna essere tolleranti perché siamo tutti uguali', fanno parte di questa concezioneche vede il mercato socioculturale come un calderone massificante dentro il quale c'è posto per tutti, purché consumi la sua pozione di stili di vita, di abiti, canzonette e "status symbols" adeguati. Ma queste politiche rischiano di essere fallimentari su due fronti: non tengono conto del profondo bisogno di identità culturale degli immigrati, che per la loro condizione di sradicati sono più propensi al fondamentalismo che all'illusione del consumismo - e ovviamente per loro non può esserci nulla di più che un 'illusione o casomai un assaggio di consumismo.:_ perché fornisce una risposta più forte al loro disorientamento. E non tengono conto di quanto questa retorica dei buoni sentimenti, nella sua sospetta coincidenza con precisi interessi di mercato, rischi di stimolare forme di razzismo tra gli autoctoni, che oppongono ragioni di disagio materiale e culturale al vedersi costretti a una convivenza imposta da imperativi e slogans superficiali e scarsamente argomentati. Ecco allora che una "pedagogia interculturale" si carica di significati più complessi di quanto non apparisse in un primo momento. Perché il confronto non si riduca a curiosità folcloristica è necessario in primo luogo procedere al riconoscimento che esistono altre culture dotate di uguale valore, anche se lontane da un livello tecnologico e di produzione di beni materiali paragonabile al nostro. II problema è come queste diverse esperienze um~epossano essere ri-conosciute e condivise. E qui che l'istituzione scolastica gioca un suo ruolo fondamentale: sarà necessario che i futuri programmi interculturali tengano conto delle responsabilità storiche e politic_he all'origine~ processi migratori. Il tentativo da parte dei paesi sviluppati di evitare il problema è comprensibile, ma rivela una miopiagrave: il it• schioèquellodi vederei popoli degli· giungere autonomamente agi · · delle nostre società non sarebbe
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