INCONTRI/GHOSH dall'esistenzialismo ...11problema per l'oggi e per il domani del mondo arabo - ma non solo per il mondo arabo - è quello di creare un'intellighenzia che sappia pensare in termini nuovi la situazione, e dare risposte nuove al vecchio problema della violenza, in tutte le sue forme. Intellettuali e scrittori dovrebbero dunque porsi prioritariamente il problema della violenza. Che talvolta li investe in prima persona: basti pensare al caso Salman Rushdie. Qual è la sua valutazione in proposito? Quali sono i margini di libertà per uno scrittore del cosidetto Terza mondo, o che ha a che fare con il magma incandescente delle culture non-occidentali? Ciò che è capitato a Rushdie è una follia. È intollerabile che uno scrittore possa venire condannato a morte a causa di un romanzo, e lui ha naturalmente tutta la mia solidarietà. Tuttavia devo anche aggiungere che il caso Rushdie, che tanto vi ha scosso, è sembrato molto più sorprendente a voi occidentali che a me. In India I versi satanici è fuorilegge anche se i musulmani costituiscono solo una minoranza, ma non è certo Rushdie l'unica vittima, l'unico intellettuale perseguitato. Vi sono infatti altri scrittori costretti a vivere come lui, in clandestinità, con una immeritata condanna sulla testa. Fra questi voglio ricordare almeno lo storico, giornalista e scrittore Khushwant Singh: quando nei primi anni Ottanta il terrorismo sikh cominciò a fare migliaia di vittime, lui fu l'unico intellettuale sikh a prendere apertamente posizione contro la violenza esercitata dai suoi con-eligionari. Il risultato è che fu condannato a morte da un gruppo estremista, e tuttora deve guardarsi le spalle. E potrei continuare. Due anni prima che scoppiasse il caso Rushdie, un quotidiano della città di Bangalore pubblicò un racconto che parlava di un ragazzo di nome Muhammad (come il profeta dell'Islam). Ma il racconto (che con il profeta non aveva niente a che fare) si intitolavaMuhammad l'idiota e questo bastò a provocare la reazione rabbiosa della comunità musulmana, che si ritenne insultata. La sede del giornale venne incendiata e distrutta. Per un indiano come me dunque il caso Rushdie non risulta tanto sorprendente: il problema è l'intolleranza- religiosa e ideologica - e la sua diffusione a livello popolare. Si tratta di una realtà ben chiara ad ogni scrittore indiano, ma Rushdie, che da molto tempo viveva in Inghilterra, ne aveva perso cognizione, insomma non aveva esatta consapevolezza delle reazioni che avrebbe potuto suscitare nelle masse con i suoi scritti. Ovviamente non sto dicendo che Rushdie non avesse il diritto di scrivere ciò che ha scritto: intendo solo dire che è diverso scrivere di una cultura e scrivere da dentro una cultura. Nel secondo caso - che è quello di Kushwant Singh - si è più consapevoli delle possibili conseguenze. La libertà deve nascere all'interno di questa consapevolezza. Di recente lei si è definito "uno scrittore del dialogo". Può illustrarci il significato concreto di questa formula, sul piano letterario e politico? "Scrittore del dialogo" è certo la definizione nella quale mi 72 riconosco maggiormente. La mia è una identità multiculturale, e la multiculturalità è il campo in cui opero. Ciò deriva certo dalla mia formazione: io sono un bengalese, la lingua e la cultura bengalese sono un crocevia di oriente e occidente, e non a caso il maggiore esponente della cultura bengali moderna è il poeta Rabindranath Tagore, premio Nobel per la la letteratura nel 1913, un uomo che del dialogo interculturale fece lo scopo della sua vita. Tagore non è un'eccezione: Calcutta, la capitale del Bengala, è la città che prima e più di altre si aprì all'occidente. Il che non vuol dire che io sostenga l'occidentalizzazione tout court, anzi: l'occidente è colpevole per non aver saputo riconoscere valori al di fuori dei propri, è colpevole di non aver saputo imparare da ciò che ha trovato al di fuori dei propri confini culturali. Da questa arrogante inconsapevolezza eurocentrica nasce il razzismo, un male che oggi tutti noi -e prima di tutto gli intellettuali - siamo chiamati a combattere con tutte le nostre forze, sotto qualsiasi forma questo male si presenti, e chiunque colpisca. Il divario, l'ostilità fra l'Occidente e il cosidetto Terzo mondo non fa che allargarsi, la guerra delle Falkland e la guerra del Golfo sono da interpretare anche come sintomi di questa crescente spaccatura. Come si riflette tutto ciò nel mio lavoro di scrittore? Ho già risposto per quanto riguarda il mio impegno per una scrittura nonviolenta. Quanto al piano stilistico, io mi riconosco debitore delle parti più diverse: non solo di Tagore o di altri scrittori bengalesi, ma anche di Marquez, Vargas Uosa e Proust. Questo discorso vale anche per altri scrittori angloasiatici come Rushdie, Ishiguro, Mo, ecc. Non esistono "purezze culturali" da difendere. Le faccio un esempio: in tutto il mondo il sari è considerato il simbolo dell'India, e delle donne indiane. Ma anche questo è un prodotto culturale ibrido, perché una volta si portava in modo diverso; l'attuale modo di indossare il sari è stato inventato dagli inglesi alla fine del secolo scorso.L'India è irriducibilmente se stessa, e contemporaneamente è anche il prodotto di mille dialoghi culturali. Quali sono gli sviluppi di queste tematiche nel suo lavoro più recente, che in Italia sarà dato alle stampe nel 1993? Anche il mio ultimo lavoro letterario è profondamente calato nella problematica della multiculturalità, ma a differenza dei precedenti non si tratta di un romanzo: lo definirei un'opera a metà fra la narrativa e il genere biografico saggistico. È un libro che nasce dalla mia lunga permanenza in Egitto, e costituisce una sorta di viaggio attraverso un aspetto molto particolare della cultura egiziana. Il mio libro nasce da un documento storico chiamato "documento Gheniza". Gheniza è una sinagoga del Cairo dove è stato trovato undocumento ebraico risalente all'epoca medioevale e redatto in una lingua mjsta, in parte ebraico in parte arabo-ebraico. Lavorando su questo documento ho ricostruito le lettere scritte da un mercante ebreo di Tunisi che andò in India nel 1130, lì decise di fermarsi, si sposò e prese una schiava indiana. II libro racconta la biografia di questo mercante, e attraverso la sua vitaparla dell'incrocio fra culture diverse (ebraica, araba, indiana), insomma il tema che mi affascina da sempre.
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