INCONTRI/DE LILLO l'aiuto di tutta l'immaginazione consumistica che ci sta attorno. Una forma di autorealizzazione attraverso i prodotti. Parlami di New York, che sembra essere un personaggio fondamentale, almeno in Mao II. Perché è un'entità potente. La forza della città non è addomesticata e è completamente nuda, tanto che ci si comincia a chiedere se questo non sia il futuro. La gente arri va da ogni parte del mondo per viverci e lavorarci, ma io credo che i problemi si siano intensificati. Il nostro nuovo presidente non troverà soluzioni facili ai guasti delle città americane. Per definizione, il presidente è l'ultima persona a sapere che cosa sta succedendo nel paese. Ecco cosa succede e questa è una delle ragioni per cui le città hanno subito un degrado così massiccio. Ma, ripeto, questa non è che una delle ragioni. Bush o Clinton, dunque, non faranno una gran differenza ... Non nell'ordine delle cose di cui stiamo parlando. Credo che qualche differenza ci sarà, ma il problema è così enorme che non so come e con quanta efficacia un democratico riuscirà a affrontarlo. Spero comunque che ci provi. Se dovessi dire che cosa sia andato storto negli ultimi dieci anni newyorkesi, quali sono le prime tre o quattro voci che elencheresti? L'elemento che colpisce di più è la violenza, ma non è facile dire cosa sia andato storto. Da un lato penso che la struttura familiare sia andata in pezzi, ma anche questo non basta. La vibrazione multiculturale di New York? Forse, perché ha portato anche al conflitto tra gruppi. Credo che per rispondere a questa domanda ci vogliano dei teorici, perché se anche ci si vive in mezzo, non si sa che interpretazione darne. Che cosa si vede? Qualcosa che di sicuro non si saprebbe inventare. Ti succede intorno con una velocità e una forza enormi. Mi ricordo ancora con precisione la prima volta che, attraversando Tompkins Square circa tre anni fa, ho visto questa gente, forse duecento persone, che si erano messe a vivere dentro scatoloni di cartone. Eccoli lì. All'inizio nessuno ci ha fatto caso, ma prima o poi la questione è diventata maledettamente seria. Che definizione daresti, da unpunto di vista letterario, dei tuoi libri? Sono romanzi. Nient'altro che romanzi. Ti va bene che siano definiti romanzi postmoderni? Come reagisci davanti a questa formula? Non reagisco, perché questo termine non mi suscita sentimenti negativi. Però preferirei non venire etichettato. Sono un romanziere e basta. Un romanziere americano. Quando è uscito Libra (Pironti, Napoli, 1989), un sacco di gente si è messa a parlare di fatti, fiction, scrittura di documentazione e via dicendo e io ho detto di no a tutto. Non è che un altro romanzo. Vedi, Omero scriveva di persone reali, quattromila anni fa o giù di li, e noi continuiamo a fare la stessa cosa, pur chiamandola romanzo. È vero, non ti pare? E cosa pensi di quello strano neologismo che è faction? 66 No, no, è terribile, è finito. Era nuovo qualche anno fa e poi è sparito del tutto. Non ha alcun valore. È stupido. Ci sono scrittori americani a cui ti senti vicino? Robert Stone, Thomas Pynchon, Paul Austere pochi altri. Ci sono alcuni giovani scrittori che sono più interessati alla storia che alla piccola fiction domestica. Prendi Richard Powers, William Gass. E tra gli stranieri? Il fatto è che devo leggerli in traduzione e questo è un grosso problema, una barriera reale, perché io sono veramente interessato alla frase e alla lingua. Comunque, amo Calvino e continuo a leggere Pavese. Mi piacciono Daniel Pennac e pochi inglesi. Che influenza hanno sulla tua scrittura lapubblicità, il cinema, la televisione? Questa è una domanda centrale, che meriterebbe una risposta approfondita. È qualcosa di cui mi occupo in continuazione, eppure non ho in proposito alcuna teoria. È un fatto sensuale, sai, come sbucciare una banana, un grande piacere e un grosso divertimento. È quello che mi piace di più della scrittura, perché prima della storia o della politica c'è la lingua, in particolare la lingua americana e lo slang. Il libro a cui sto lavorando adesso approfondirà come non ho ancora mai fatto proprio questo tema. Non so bene cosa dirti, perché ho appena iniziato, ma voglio occuparmi di alcune vecchie forme gergali americane. Quando dico vecchie, mi riferisco a espressioni di trenta, quarant'anni fa. Voglio cercare di usarle in modi interessanti. Un po' come succede quando si legge l'Ulisse di Joyce e si ha la sensazione di andarsene a spasso per Dublino, vorrei riuscire a fare il mio giretto in mezzo alla lingua americana e ai suoi vari livelli d'uso. Quali saranno le tue fonti? La mia memoria. Ho cinquantacinque anni e il libro che sto scrivendo inizia nel 1951. Credo di avere una memoria molto più lucida di molte delle cose successe allora che di quelle successe in anni recenti. Ricordo come la gente parlava, si vestiva, persino che aria aveva. Che cosa provi davanti alle trasformazioni che riguardano la sfera del linguaggio? Diciamo che registro i cambiamenti. Spesso brutti. Si fa molto uso del gergo, di un gergo sdandardizzato, corporate, che manca completamente di rispetto per ciò che la lingua significa, ma allo stesso tempo il cambiamento è interessante, a qualunque livello si produca. Ad esempio, certe forme che per cinque anni ci possono essere parse totalmente ripugnanti all'improvviso cambiano di posizione e così capita che si cominci a usare una frase che prima non ci saremmo mai permessi. Le lingue dunque si rivitalizzano. Per quanto riguarda l'inglese che si parla in America, è facile provare nostalgia per lo slang che si usava in passato. La mia idea è di provare a arrivare al significato preciso di alcune di queste parole e espressioni e a capire da dove siano arrivate e quale sia stata la loro storia. In questo modo la faccenda diventa interessante e smette di essere puro e semplice sentimentalismo.
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