I BENEFICIDELL'INVISIBILITA' Incontro con Don De Lillo a cura di Maria Nadotti La discutibile abitudine di consumare immagini fisse e di credere di conoscere la gente, perché la abbiamo vista infotografia, televisione, cinema va, con Don De Lillo, allegramente a gambe ali' aria. Sapientemente diverso da quei pochi ritratti fotografici che, con buona economia di se stesso, ha permesso circolassero, lo scrittore è, dal vivo, irriconoscibile. Alla lettera. Piccolo, modesto, mite, tanto quanto, ad esempio, lafoto del risvolto di copertina del suo Mao II (Leonardo, Milano, 1992) lofa sembrare grande, duro, imperioso, lievemente minaccioso. Neutro o anonimo sono, è probabile, gli aggettivi giusti per descriverlo. Quella neutralità tipica di chi preferisce la posizione di osservatore a quella di protagonista e di conseguenza si attrezza, impugnando l'unico strumento adeguato allo scopo: la capacità di sparire, mimetizzandosi, diventando uno tra i tanti. Dunque sempre diverso, a seconda dei casi. Il suo corpo - ma anche la sua vocesembrano non lasciare traccia, tendono a farsi dimenticare, a essere riassorbiti nel pieno da cui sono venuti. Come capirò nel corso deli 'intervista, quello chepotrebbe sembrare un handicap è invece un abile gioco trasformistico. La dimostrazione che, applicandocisi, si può proiettare di sè l'immagine desiderata, variabile a piacere. Un esercizio, che potremmo definire di potere, il cui obiettivo sembra essere quello di spiazzare i possibili interlocutori e di condurre il gioco delle relazioni. Apparire e sparire, ricomparire con un'altra faccia e un altro look. "La prossima volta che ci incontreremo sono sicuro che non mi riconoscerai." Mi viene il dubbio che dietro questa ironica esibizione di onnipotenza, che passa dalla negazione di una stabile immagine fisica di sé, ci sia la timidezza schiva di chi non sta comodo nel proprio corpo eforse del tutto non si piace. E pensare che tutto è cominciato da una mia espressione di sorpresa, quando ci hanno presentati, impossibile riconoscerti, ti facevo molto più alto, colpa di queste maledette fantasie che uno sifa sugli autori leggendoli e appoggiandosi a uno straccio di ritratto fotografico magari vecchio di anni. "No, no," mifa lui, "è che davvero mi sono ristretto. Ogni libro che scrivo mi rimpicciolisco un po'. Alla fine non resterà più niente." Di Don De Lillo, prima di Mao II, sono usciti in Italia, pubblicati dall'editore Pironti di Napoli: Rumore bianco, Libra, I nomi, Cane che corre, Giocatori. Partiamo da uno dei tuoi temifondamentali, centrale anche in Mao II: il rapporto tra individuo e grandi numeri, masse, riferendoci soprattutto alla situazione nordamericana di oggi. Beh, io credo che le masse siano entrate nella nostra coscienza in modo forte. Non so bene come sia, ma sembra esista una specie di desiderio che attraversa oceani e continenti e spedisce la gente nelle strade. In Mao II ci sono moltitudini dappertutto: nelle strade, in televisione, negli stadi, folle di rivoluzionari, di gente in lutto, diversi tipi di masse. Il mio libro, a modo suo, si chiede chi stia parlando a questa gente. È lo scrittore, che tradizionalmente credeva di poter influenzare l'immaginazione dei suoi contemporanei o non è piuttosto il leader totalitario, il militare, il terrorista, uomini storditi dal potere e che sembrano capaci di imporci la loro visione del mondo, riducendo la terra a un luogo di pericolo e rabbia? Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate molto. Non si sale su un aeroplano con lo stesso spirito di dieci anni fa: è tutto diverso e questo cambiamento si è insinuato in noi con la stessa forza con cui sapevano insinuarsi le visioni di Becket o di Kafka. C'è qualcosa a proposito di una folla che suggerisce una sorta di panico implicito, anche quando si tratta di una folla amichevole. C'è qualcosa di minaccioso, di violento in una massa di persone, magari raccolte attorno all'immagine di un leader militare o di un santo uomo, che ci fa pensare alla fine dell'individualità. Persino un'immagine è una specie di folla in sè, una sbavatura di impressioni, così diversa dal libro in cui le righe stampate si susseguono secondo un ordine lineare. C'è qualcosa nelle immagini che sembra fare a pugni con l'identità individuale. Qui sto entrando in un territorio molto soggettivo. Ma torniamo agli scrittori. Non credo che uno scrittore possa concedersi il lusso di appartarsi dalle masse, anche se chi scrive è per definizione una persona che passa la maggior parte della sua vita sola in una stanza in compagnia di una macchina da scrivere, di carta e penna. È indispensabile essere pienamente coinvolti nella vita contemporanea, fare parte delle masse, del trambusto, dello scontro di voci. Proprio quando stavo per concludere Mao II, ero immerso nella lettura dei diari di John Cheever. Cheever, in una delle sue pagine, racconta cosa ha visto capitare una sera, a New York, durante una partita cli baseball. Un giocatore lancia e la palla va a finire contro il pubblico della tribuna. Quaranta persone le si avventano contro cercando di afferrarla. Cheever, a proposito di questa scena, ha scritto: "Il compito dello scrittore non è di descrivere i pensieri di un'adultera in piedi accanto alla finestra a guardare la pioggia che riga il vetro." "Lo scrittore", ha detto, "deve capire quelle quaranta persone che cercano di agguantare la palla da baseball o quelle altre dieci, ventimila che lasciano il campo da gioco una volta che la partita è terminata. I giudizi morali sono incassati in una vastità migratoria." La cosa per me era molto strana. Voglio dire, forse perché stavo finendo Mao II proprio allora, queste parole mi hanno colpito con forza, soprattutto perché venivano da uno scrittore come Cheever, che aveva passato la sua intera vita professionale a descrivere proprio quell'adultera. Suppongo che in qualche modo avesse dato voce a un'intuizione che io avevo semplicemente seguito, cioé al tentativo di mettermi all'interno di una folla. A che punto della storia recente collocheresti questa svolta? Quando è diventato necessario lasciar perdere la donna e le sue rimuginazioni sull'adulterio per occuparsi di masse? Di recente. Non so se si può individuare un momento preciso, un evento specifico che la abbia provocata. Per quel che mi riguarda, tutto è cominciato da una fotografia. Mi è capitata per le mani l'immagine di un matrimonio di massa, una cerimonia svoltasi in un deposito industriale, in Sud Corea. Vi erano coinvolte sedicimila persone. Uno di quegli sposalizi massifi_catidella Unification Church, una folla organizzata, ordinata. E da lì che ho cominciato a pensare alla psicologia delle masse, al!' obliterazione delle distinzioni, a come la gente perda se stessa nella moltitudine, al bisogno di essere parte di una moltitudine. Questo mi ha fatto immediatamente riflettere sulla giustapposizione tra le masse, masse irreggimentate di persone che vogliono pensare e vestirsi tutte allo stesso modo, e lo scrittore che sta cercando di capire questo fenomeno, vive solo, potrebbe essere una specie di recluso tipo Bill Gray (il protagonista di Mao Il, NdC), si tiene appartato dal chiasso della nostra cultura, fuori dal mondo delle immagini. È così che ho pensato al mio personaggio, uno scrittore molto 63
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==