SCIENZA/HALDANE Trovo comprensibili e persino apprezzabili quasi tutte le virtù e i vizi degli eroi dell'epica indiana. La seconda parola della Gita, dharmakshetre, descrive esattamente i sentimenti che provai andando per la prima volta in trincea nel 1915. Sapevo benissimo che potevo morire in quei campi piatti, senza contorno, e che lì si stava perpetrando un enorme spreco di vite umane. Ciò nonostante trovavo che quell'esperienza andasse goduta in ogni minimo particolare, idea che la maggioranza dei miei commilitoni non condivideva affatto. Ero sostenuto, per così dire, da un'ondata di dharma. In Europa le virtù Kshattriya, cioè le virtù cavalleresche, comprendono il disprezzo per varie forme di bassezza e l'esecrazione della violenza contro gli indifesi. Per un cavaliere europeo l'abitudine al gioco d'azzardo sarebbe stato un vizio. Io capisco il punto di vita di Yudhisthira: uno Kshattriya non deve mai sentirsi al sicuro. Il suo dharma comporta il fatto di dover essere sempre pronto a rischiare la vita e a perderla, se necessario, in qualsiasi momento. Per questo dev'essere anche disposto a rischiare i propri beni. Confesso, però, che trovo meno accettabile il fatto che Yudhisthira avesse impalato la moglie e i fratelli. Durante la guerra del 1914-18 mi sono trovato, in diverse occasioni, di fronte a singoli nemici che combattevano con armi simili alle mie, mortai da trincea o fucili con il mirino telescopico, ed erano aiutati ciascuno da una piccola squadra. Questa era la guerra cantata dai grandi poeti: sono stato fortunato ad averla provata! Dobbiamo ora considerare due fatti. La Gita, nella quale Arjuna esorta a comportarsi da violenti, era il poema preferito da Gandhi, l'apostolo della non-violenza. Nel corso della mia vita il modo di far guerra è cambiato completamente. La guerra moderna ha due forme principali. Una è caratterizzata dal massacro indiscriminato di civili indifesi con bombe atomiche o altre armi. L'altra, quella che si sta svolgendo in Algeria, in Malesia, in Kenia, aCipro e altrove, è caratterizzata dal ricorso alle imboscate e ali' assassinio di singoli individui da parte del combattente meno armato, e dall'uccisione dei prigionieri e dalla riduzione in schiavitù di intere popolazioni da parte di coloro che sono meglio equipaggiati. La guerra moderna non evoca alcuna delle virtù dello Kshattriya, a parte il coraggio. E tuttavia, come dice Gandhi, queste virtù sono assolutamente necessarie nella vita d'oggigiorno. Ovviamente nella stessa mitologia indù è latente una contraddizione. Non solo Rama e Krishna, ma lo stesso Budda, il massimo predicatore della non-violenza, erano Kshattriyas. Ma Parasurama, il figlio di Jamadagni, un'altra incarnazione di Vishnu, dedicò la propria vita a sterminare quella casta. Allora com'è possibile conciliare le virtù Kshattriya con la nonviolenza? Gandhi ha dato una risposta a questa domanda. Ce ne sono altre, compatibili con quella di Gandhi, ma riguardano altri ambiti. Gandhi si è sempre occupato delle lotte tra i popoli e ha fatto del suo meglio per eliminare da esse l'odio e la violenza. Esiste un altro tipo di lotta. Cito, traducendo a memoria dal greco, la lettera dell'apostolo Paolo agli Efesini: "In verità la ~os~ra ~on è una battaglia contro il sangue e la carne, ma contro 1 Pnnc1pati, contro le Potestà, contro i lokapalas del kali-yuga, contro le sorgenti spirituali origine del male". Traduco il vocabolo kosmokrator, dominatore dell'universo, con lokapala. La frase .... tradotta come kali-yuga presa alla lettera significa "questo mondo di tenebra". Ritengo che il concetto di lokapalas sia stato introdotto in Asia occidentale da fonti buddiste all'epoca di san Paolo. Alcuni di noi combattono le forze naturali che in India vengono troppo spesso venerate come divinità minori, per esempio il colera o il vaiolo. Mio padre si occupava soprattutto di cose come l'aerazione delle fabbriche e delle miniere, importanti sia nella tutela della salute sia nella prevenzione delle esplosioni. Quando volle scoprire perché gli uomini morivano dopo le esplosioni nelle miniere di carbone anche se non erano rimasti feriti, prima di tutto esaminò i cadaveri degli uomini e dei cavalli morti in seguito a esplosioni sotterranee, si convinse che erano morti intossicati dal monossido di carbonio, e quindi procedette ad avvelenarsi con questo gas. Vale a dire che ne respirava una certa quantità finché cadeva svenuto, e che solo allora un collega lo tirava fuori dalla camera a gas. In questo modo egli scoprì quanto tempo impiega una quantità nota di tale gas a sopraffare un uomo. Trovò anche che gli uccelli di piccole dimensioni soccombono molto più in fretta degli uomini (e si riprendono molto più velocemente). In ogni caso mio padre era contrario agli esperimenti sugli animali che potessero provocare loro dolore o paura (l'avvelenamento da monossido di carbonio non dà né l'uno né l'altra). Preferiva lavorare su se stesso o su altri esseri umani che fossero interessati al lavoro quanto bastava per non curarsi del male o della paura. I suoi esperimenti sugli effetti del calore avrebbero potuto essere definiti tapas. Egli scoprì che poteva sopravvivere in un ambiente secco a una temperatura di 150 °C. A temperature vicine a questa i suoi capelli cominciavano a strinarsi quando li scrollava. Ma non credo che le sue motivazioni fossero quelle di un asceta che praticava il tapas. Egli raggiungeva in effetti una condizione nella quale era totalmente indifferente al dolore, ma il suo scopo non era quello di raggiungere tale condizione, bensì quello di ottenere da tale stato delle conoscenze che potessero salvare altre vite umane. Il suo atteggiamento assomigliava di più a quello di un buon soldato, che rischia la vita e sopporta le ferite pur di conquistare la vittoria, che non a quello di un asceta che si sottopone di proposito al dolore. Il soldato non cerca deliberatamente di essere ferito, e mio padre non andava in cerca del dolore nel proprio lavoro, anche se affrontava sorridendo sofferenze che avrebbero fatto gemere e contorcere altre persone. Penso che avrebbe condiviso l'affermazione che l' atman o buddhi che era in lui rideva dell' ahamkara. Io ho cercato di imitarlo. Ho bevuto e inalato notevoli quantità di diverse sostanze velenose, in alcuni casi in dosi certamente superiori a metà di quella letale, e ho compiuto esperimenti analoghi su altri volontari, tra i quali mia moglie. Per questo motivo mi secca abbastanza non es~ere ammesso nei tempi di Siva che, secondo una ben nota leggenda, bevve del veleno per salvare gli altri dèi. Se Siva esistesse potrebbe gradire di più un'azione di questo genere che non la recita di centomila mantras. Credo che questo approccio non-violento alla biologia sperimentale sia fruttuoso. Non condanno coloro che compiono esperimenti sugli animali, provocandone la morte, e neppure quelli che provocano soltanto una blanda sofferenza. Ma non ho
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