CONFRONTI Herling ammira il diario di Leonardo Sciascia; e togliendo al critico il piacere di scoprire coincidenze e affinità, dichiara il Diario scritto di notte fratello d'elezione di Nero su nero (anche nel titolo). Il critico è però in grado di prendersi una platonica rivincita, notando come l'affinità tra Herling e Sciascia non si arresta alla propensione per la sotie, ma si addentra negli evanescenti territori del narcisismo e della bella pagina. Detto così è un po' forte: il fatto è che l'io, cacciato dalla porta rientra dalla finestra alla quale lo scrittore s'affaccia per guardare il mondo. Se il narcisismo di Sciascia, oltre che in certe arricciolature della prosa, lo troviamo in una frase di Nero su nero ("Sono così soddisfatto della mia intelligenza che un terrore mi assale: di doverne vivere il contrappasso nella follia"), quello di Herling andrà cercato nel tono complessivo di molte tra le pagine-finestra, le pagine di viaggio. C'è tanto orgoglio dissimulato nel volersi ridurre a sguardo che registra i fatti quanta c'è umiltà nel considerare esemplari le vicende altrui: un tanto di manierismo stilistico è il lieve pedaggio pagato a fronte di un'assoluta probità del dettato etico. Proprio vero che descrivere è una tentazione. Infatti le pagine più belle sono la lunga cronaca del terremoto in Irpinia, scrittura rattrappita dall'orrore, come di monche annotazioni su un taccuino. Il vero diario intimo di Herling sarà dunque da leggersi in filigrana attraverso la cronaca, sarà un diario non scritto. Ogni volta che il discorso promette (al lettore indiscreto) o minaccia (l'autore elusivo) di farsi più personale ecco, soccorrevole, una citazione letteraria: Herling possiede tra l'altro la virtù di parlare sempre di letteratura senza mai apparire un letterato da biblioteche. È la citazione che s'incarica d'inoltrarsi, in vece dell'io di Herling, nell'inconscio e nell'irrazionale. La spia dei suoi più privati stati d'animo sarà nelle sue frequentazioni, nei suoi diversivi, Dostoevskij e Kafka sopra tutti: non per caso, due scrittori "profondi", due scrittori-trivella. Non è il Dostoevskij mistico che Herling ama: è il Dostoevskij che si ostina a fissare col suo rudimentale e precisissimo microscopio il brulicare caldo, marcio, esaltante e avvilente della società e dell'animo umano, un Dostoevskij più vicino a Cechov che a visioni di redenzione. In Kafka, Herling ammira il realista assoluto. Quest'annotazione ci porta, credo, al centro della sua visione politica e interiore. Il più bel racconto inserito nel libro è forse il resoconto dell'immaginaria partecipazione di Herling a un immaginario convegno in onore di Kafka organizzato a Praga dall'ambasciata americana, relatore un professore Karel Popradek finito guardiano alle latrine pubbliche dopo la primavera '68. È, certo, un pezzo di satira nera che avrebbe strappato l'applauso al suo amato Flaiano, autore di un racconto affine, Inediti di K. Ma è anche un racconto che testimonia di un'ossessione. Il pezzo "satirico" incomincia con "Una fitta di paura, acuta e violenta" provocata ali' autore dal suo sinistro vicino in aereo, un individuo che, a lui titolare di falso passaporto argentino col quale istintivamente si copre il viso, rivolge la parola in spagnolo: "ho risposto con borbottii inarticolati e irritati, mentre un' ondata di sangue caldo mi saliva alla testa". Un episodio che gli fa rievocare i terrori provati a Vienna 1955, città ancora divisa in zone d'occupazione, quando si sentì spiato e braccato dai sovietici. È qui che la ferita primordiale torna ad aprirsi: si scopre che il racconto su Kafka, nel senso letterario e in quello letterale, è vero. La reazione automatica di fronte ai portatori di comunismo è sempre la fuga, la sospensione della razionalità. Una reazione di cui noi, i non feriti, i non torturati, dobbiamo avere rispetto, anche quando proietta ombre ingenerose su persone che abbiamo stimato e stimiamo. Per esempio, risulta difficile credere che Carlo Levi, il quale di schierò subito (con tutta la casa editrice Einaudi) a fianco degli insorti di Budapest nel '56, si sia lasciato andare a battutine sulla rivolta "finanziata dagli americani", scatenando l'indignazione di Nicola Chiaromonte: eppure è un episodio che Herling rievoca più volte, nel diario e altrove. Perfettamente fotografato, invece, il modo che aveva Moravia - tra cinico, furbesco e indolente - di compromettersi non compromettendosi: a un congresso del PEN Club, rifiutò di firmare una mozione in favore dei dissidenti ungh~resi, "per non ingerirsi negli affari interni di uno Stato sovrano". Sia come sia: il nocciolo del sentire politico di Herling non è 22 aneddottico, ma è una ferma opposizione a tutti i totalitarismi, visti come una degenerazione della specie, studiati nei loro comuni lineamenti, uguali per tutte le ideologie di copertura. Nella letteratura applicata alla storia, Herling si affanna a ravvisare segnali e coincidenze, a narrare vicende esemplari, a inventarle più vere del vero, come il ritratto immaginario del filosofo Ugolone da Todi, ancora un pezzo di satira alta e dolente. Addirittura Giobbe, resuscitato, "riabilitato" dopo l'estrema umiliazione, potrebbe essere una figura del comunismo quale si è attuato nella storia, "una parabola della fede totale in cui l'horror religiosus determina la sospensione teologale della moralità." Colpisce, nel diario, una consapevolezza che già si avvertiva in uno dei più bei diari italiani, quello di Corrado Alvaro: la consapevolezza di ciò che si potrebbe chiamare la petrosità della vita, un senso dell'avarizia e della refrattarietà del mondo da erodere palmo a palmo per conquistare il bene frugale di una felicità (di una verità) subito contraddetta, o il parziale sollievo di una cicatrice. Ma al contrario di Alvaro, Herling sembra non avere nel proprio passato ombre politiche su cui recriminare. Il che gli ha attirato commenti più agri che dolci come quello di Franco Fortini, fedele alle inimicizie: "Meglio smettere di fingere. Eravamo avversari e Io siamo tuttora. Talora sul confine che l'avversario muta in nemico." O, sull'"Unità", questo amaro borbottio di Arminio Savioli, che nel '44- '45 si trovò ad incrociare i commilitoni di Herling: "Scoprire che tra quei 'contadinacci' in uniforme, devoti alla Madonna e all'alcol, e inclini ali' incendio delle bandiere rosse e alle incursioni contro le prime sedi del Pci, c'era un intellettuale come Herling è un'ironica sorpresa, un'occasione stimolante (ma quanto faticosa) di ulteriore ripensamento autocritico." Sono giudizi a denti stretti, piuttosto ingenerosi, da amanti smodati del proprio particolare, della propria privata vicenda: tanto più che in Herling è del tutto assente l'orgoglio di chi si è sempre sentito nel giusto e adesso che è arrivato il suo momento si prende la sadica rivincita, col ghigno di chi l'aveva detto lui. Piuttosto, reazioni del genere sono fatte per confermare ciò che Herling confidava a Nello Ajello: "Diciamola tutta: io in Italia, fra gli intellettuali, mi sono sentito un lebbroso. Almeno fino al 1960." E così era per Silone, per Chiaromonte. Le recensioni a Un mondo aparte ( che da noi ha avuto due introvabili edizioni, Laterza 1958 e Rizzoli 1965) si contano sulle dita di una mano sola; luminosa eccezione, Paolo Milano. Soltanto oggi si comincia a capire che tutti i sentieri interrotti, tutte le esperienze collaterali e isolate e inclassificabili del Novecento paiono collegarsi spontaneamente le une alle altre, formando così la vera misconosciuta strada maestra del nostro seèolo letterario e civile. Dovrebbe essere chiaro a sufficienza che Gustaw Herling è tutt'altro che un'anima bella. È anzi un medico impietoso del suo e nostro scenario · sociale. Lui cattolico, ricordando il golpe di Jaruzelski scrive che "Una rivoluzione incruenta che respinge a priori l'eventualità di uno spargimento di sangue rischia di trasformarsi in una rivoluzione esangue." Potrà sembrare una distinzione da critica d'altri tempi: ma si può suggerire al lettore che se l'animo di Herling è religioso il suo occhio è laico? La religiosità di Herling sta tutta nella sua affermazione che al mondo c'è bisogno della santità ma non dell'agiografia. Si sent'e che non è tra coloro che pensano che "ormai soltanto un Dio ci può salvare": è sempre in cerca di uomini di buona volontà. Sa che la ragione laica scava gallerie nell'animo umano, nella ragione, nell'istinto. La giovane imperfetta democrazia polacca va lavorando in profondità: l'importante è che il suo stigma s'imprima nella mentalità collettiva. Così il laicismo delle regole di condotta politica, delle aspettative razionali, si collega a una religione dell'etica, al pudore della storia e della politica, dell'ascesi della discrezione. È solo da una mente tapto religiosa quanto smagata che ci si può aspettare una battuta di questo genere: "ci capita di sfiorare l'essenza delle cose, mai afferrabile, soltanto sullo scivoloso terreno fra la banalità e il mistero." Ma è tempo ormai di concludere. Herling sostiene che compito del critico è cercare "opere letterarie degne d'amore". Chi scrive spera di avere invogliato qualche lettore a scoprirne uria, a scoprire il descrittore civico Gustaw Herling.
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