ILCONTESTO Intellettualimilitanti: il rifiuto,gli atti, la lealtà, le norme Francesco Ciafaloni Abbiamovisto come i mezzi corromponogli uomini, come questi gruppidiventanouna leggea sé, come si infatuanodellapropria analisi e, quandoqueste analisi si rivelano sbagliate, con le spalle al muro, si ripieganosu sestessia tal punto,che la solaviadi uscitasembranoessere forme ancora più vigorosedi terrorismo. (BreytenBreytenbach) Il libro che Michael Walzer (L'intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Il Mulino, Bologna 1991, L. 36.000) ha dedicato ai critici della società nel Novecento affronta uno dei problemi fondamentali di questo secolo, quello della legittimità della rivolta e del rapporto tra la rivolta, l'appartenenza e le norme, attraverso la presentazione e la recensione dell'opera e della vita di alcuni critici della società. Il sommario. Non è un libro ricco di novità o coerente nella tesi come Sfere di giustizia o Esodo e rivoluzione. I critici, gli intellettuali militanti di cui parla, con l'eccezione, forse, di Bourne e Breytenbach, forse di Martin Buber, sono quelli esemplari, fondamentali nella formazione dei critici della società in Europa e in Italia per almeno tre generazioni di italiani (oltre a quella dei cinquantenni, la mia, quella che l'ha preceduta e quella che l'ha seguita): Benda, Gramsci, Silone, Orwell, Camus, de Beauvoir, Marcuse, Focault. È difficile suGramsci e Silone dire qualcosa di veramente innovatore ad un pubblico italiano di critici della società. Ancora più difficile rompere le incrostazioni, le stratificazioni che si sono accumulate negli anni su Orwell e Camus o costringere a fissare lo sguardo, oltre lo splendore dell'immagine, sulla sostanza, sulla realtà testuale e pratica di Marcuse e Foucoult, che sono diventati una leggenda. Si possono leggere, uno per uno, i profili ideologici di cui il libro è composto e chiedersi che cosa di nuovo veramente ci sia, che cosa ci si è capito in più del già noto. Oppure trovare l'intero volume un po' eccessivamente freddo nei confronti della sacrosanta congrega dei critici, un po' restauratore. Ma, in effetti, nelle conclusioni dei singoli profili e nel complesso del lavoro, il libro è un contributo importante alla discussione sulla politica, sulla critica della politica, sulle rivolte degli anni Sessanta e Settanta, sul pensiero negativo, sul relativismo, sulla recente critica radicale alla società capitalistica in Italia (da Claudio Napoleoni a Pietro Barcellona, che l'autore certo non conosce ma che fanno parte di un atteggiamento di cui tratta). I profili infatti hanno gli stessi nodi problematici in comune e sono valutati con una griglia analitica comune. La valutazione positiva o negativa che, con molta cautela, viene data, spesso dall'interno del sistema di pensiero e di azione dei critici di cui si parla, è motivata con gli stessi argomenti generali e con le stesse inadempienze interne. Walzer constata che il punto debole dei critici della società, l'elemento che li spinge nella vuota retorica e nell'incoerenza, è il soggettivismo, il rifiuto di riconoscere regole generali di comportamento e di riconoscersi parte di gruppi di cui rispettare la volontà e i principi e condividere la sorte. Ciò che costituisce la forza di Silone, o di Gramsci, o di Camus, o di Breytenbach, è l'aver accettato delle norme, l'essersi schierati con un gruppo umano (i cafoni abruzzesi, gli operai, i pied noirs, i neri sudafricani oppressi, discriminati, e nell'aver scritto ed agito in loro difesa secondo principi. Lo sfruttamento, il dolore, la morte, la rivolta di cui parlano costoro è uno specifico sfruttamento, riconoscibile nel quadro 18 stesso dei principi della società di quel periodo. La rivolta è temperata dal riferimento a delle persone fisiche realmente esistenti, con cui si accetta un vincolo organizzativo, di mandato, affettivo, di identità. La particolare procedura di analisi dall'interno rende spesso ambiguo il ragionamento e incerte le conclusioni. Ma in una materia così complicata ed importante anche le conclusioni incerte e i percorsi ambigui sono interessanti. La valutazione di Walzer, come è facile immaginare, risulta perciò più positiva per Silone, Gramsci, Camus, Breytenbach, più negativa per Marcuse, Foucault; ambigua per Benda e de Beauvoir. La tesi. L'aspetto che a me sembra più interessante dell'analisi è il rapporto, che si tenta di fondare, tra la critica e l'azione individuale dell'uomo in rivolta e i principi generali, le regole, le lealtà, da cui la rivolta discende; tra l'azione del singolo e le sofferenze e i bisogni delle persone fisiche che nello stato di cose presente sono umiliate, oppresse, offese. Silone trae la sua forza, la sua capacità di resistere alla pressione immane e ai pericoli del nascente stalinismo perché lui si ribella non solo per sé, non solo per applicare una teoria o rispettare dei principi ma anche per i cafoni del suo paese, cui va la sua lealtà primaria e sulla cui specifica sofferenza è fondata la sua rivolta, la cui dignità è il fine della sua azione e il limite a ciò che lui è disposto a fare e sopportare. Così Breytenbach non è un critico isolato e sradicato che se ne sta a Parigi, al sicuro, senza far nulla, ad esprimere la sua denuncia: è uno che è stato a lungo in galera, che ha pagato e paga, che è e si sente vincolato dai suoi principi e coinvolto nel conflitto tra bianchi e neri, dalla parte dei neri, che sono oppressi, e contro quelli che hanno il suo stesso colore. E la de Beauvoir riesce ad essere in parte coerente e a svincolarsi dalla posizione sartriana in quanto, in parte, si identifica con le donne, con tutte le donne. Queste considerazioni, che non sono semplici enunciazioni di principio ma focalizzazione di debolezze intrinseche, incoerenze, retorica, pompa, che derivano dal rifiuto delle regole generali e della identificazione con un gruppo umano reale, mi sembrano pertinenti per la discussione che c'è stata nella sinistra italiana sulle istituzioni, il valore e i limiti del pensiero negativo, il valore e i limiti della rivolta individuale, i limiti dell'agire politico di chi si ribella. Quali vincoli ha chi sceglie di agire da solo contro lo stato, o la società, o il conformismo? A chi deve rendere conto chi si ribella, cosa deve esprimere oltre al proprio rifiuto? Perciò per me il libro sicolloca idealmente accanto a un libro come/l suicidio della rivoluzione di Del Noce, o la discussione sulle avanguardie, sulla legittimità etica della violenza, a interventi come quelli di Mario Miegge (sul "Manifesto", più volte e in Pugillaria ), sul rapporto tra le scelte individuali, i principi e le scelte della maggioranza. Il percorso. La materia rilevante, da affrontare sempre coi criteri della ragion pratica e non con quelli della ragion pura, è il limite, etico, prima che politico, ma anche politico, all'azione di chi non condivida lo stato di cose presenti, soprattutto in quanto l'azione abbia conseguenze su altri. Che diritto abbiamo di mettere a repentaglio la vita altrui o l'altrui sicurezza per opporci alla forza, o alle istituzioni, o ai micropoteri, di un sistema che non condividiamo? Come cambia il limite al mutare del tjpo di legittimità dei poteri? Come cambia il limite a seconda della legittimità sociale dell' azione, cioè a seconda del mandato che chi agisce ha esplicitamente o ritiene di avere implicitamente da parte di un gruppo sociale? Il problema sembra porsi in maniera diversa se nel quadro si immette una qualche religione rivelata. Chi infatti creda in un'etica rivelata può porre il problema chiaro della compatibilità tra la critica, la rivolta, l'azione politica e l'etica in cui crede, mentre il
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