E se un giorno, a questi caduti, si vorrà dare una ricompensa al valore, non certo noi, gli ebrei sopravvissuti, la rifiuteremo; ma non si conino apposite medaglie, non si stampino speciali diplomi: siano lemedaglie e i diplomi degli altri soldati. "Soldato Coen... Soldato Levi... Soldato Abramovic ... Soldato Chaim Blumenthal, di anni cinque, caduto a Leopoli, in mezza alla sua famiglia, mentre, con le mani legate dietro la schiena, ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della libertà". Queste motivazioni noi, indegnamente sopravvissuti, le ascolteremo sull'attenti, cercheremo di non tremare quando stringeremo la mano che ci verrà tesa, la nostra voce si sforzerà di essere ferma, quando risponderemo: "Grazie, signor Generale." Poi rientreremo nelle mute, interminabili file che schiereranno i parenti degli altri caduti, le gramaglie di tutto il mondo, in quella solenne, religiosa parata dell'umanità. Quel bisogno di soffrire, di cui parla il Croce, non è se non il bisogno di sentirsi vivi nella vita di tutti, partecipi della immancabile lotta e contrasto, che il lavoro e i compiti quotidiani costano in questo mondo. Il quale, se diventasse un mondo di idillio, nel momento stesso diventerebbe un mondo di morti che camminano, quand'anche fallacemente lo smaltassero e imbellettassero i colori della vita. Perciò gli ebrei chiedono questo onore di soffrire: cioè chiedono di non essere defraudati, neppure a titolo di risarcimento o di riparazione dei danni, di questa loro parte dell'umano retaggio. Per secoli e secoli hanno custodito, ripetuto, salmodiato, nella penombra delle sinagoghe, nelle veglie e nei digiuni, nelle penitenze e nei sabbati, nei ghetti e per le vie della diaspora, il messaggio dell'Antico Testamento. Come avrebbero dimenticato che l'idea del pane, cioè quella delle sorgenti stesse e del perpetuarsi della vita, è indissolubilmente legata all'idea della pena, del sudore della fronte? Essi non vogliono il paradiso terrestre per infrazione ai regolamenti. Senza dire che, ai privilegi e benefizi, è troppo facile adattarsi. Le agevolezze di vita rendono superficiali, assecondano le riparatrici e già troppo spontanee labilità della memoria. I dolori di ieri si dimenticano, anche e proprio quando furono più luttuosi e cocenti, e si dimentica quanto cordoglio e quante angosce sia costato questo bene, che oggi pare largito appunto per aiutarci a dimenticare. Ci si abitua a essere amati, a vivere con facilità; e l'abitudine rischia di diventare presto un bisogno, e il bisogno acquisito rischia di creare la presunzione di un diritto. Può, questa nostra, parere una riottosa, bizzosa, vittimistica, incontentabile paura di essere amati. Ed è soltanto paura di essere gratuitamente amati, ingiustamente amati, cioè male amati: non più costretti a far nulla per meritarci questo amore. Ma domani, inevitabilmente, dovremo ricominciare a meritarcelo: e allora? non saremo stati viziati? Non già che gli ebrei si siano, in questi ultimi tempi, sentiti vittime di troppo corrive largizioni di vantaggi, fantocci di un tiro a segno della benevolenza. Ma noi ragioniamo su un sintomo, su una possibilità, della quale abbiamo raccolto, o subodorato, qualche indizio: ed è questo, anche, che scagiona il nostro discorso da ogni taccia di ingratitudine. Il quale discorso, l'abbiamo detto, vuole parlare a nuora perché suocera intenda. Che disagio, per esempio, abbiamo provato quando qualcuno, ridendo ma senza cattive intenzioni, e solo per il gusto di un documento psicologico, ci ha riferito la storiella di quei tali che, sbucati dai loro nascondigli all'arrivo degli eserciti liberatori, hanno sùbito, ai primi saluti, declinato la propria qualità di ebrei, come un titolo a particolari riconoscimenti, facilitazioni, indennizzi. E magari era la stessa gente che, sotto il diluvio, si era inventata i più ILCONTESTO incongrui ombrelli e più diligentemente si era industriata per cancellare ogni sospetto di "appartenenza alla razza". Una sera, nei tempi più neri del diluvio, Bernardo Berenson si poneva l'eterno problema: perché gli ebrei rimangono ebrei, malgrado il ciclico ritorno delle persecuzioni? E si rispondeva con un suo ricordo siciliano. Trovandosi in altri tempi a visitare le pendici dell'Etna, ne ammirava la feracità da Terra Promessa. Qualcuno però gli disse che periodicamente la lava scende a incenerire quei campi. "E perché allora li coltivate?" domandò ai contadini. "Perché quando i tempi tornano buoni, voscenza, così buoni sono, che ci ripagano di qualunque malanno." Questo, commentava l'eminente scrittore, spiega per analogia la tenacia degli ebrei nel sopravvivere. In quella sera di afflizione, l'aneddoto raggiungeva lo scopo desiderato: che era anche di confortarci, di farci credere nel ritorno di tempi migliori, di rinnestarci nella vita, assimilandoci se non altro a quegli aratori del vulcano. MaBerenson non si dorrà se ora, al ritrarsi della lava, la sua storia ci piace un po' meno. Vorremmo dire che gli ebrei, non è che si inarchino sotto le sciagure degli anni delle vacche magre, per aspettare che rivenga il _settenniodelle vacche grasse. Sono uomini, certo, e amano anche loro la sicurezza, il benessere, magari la felicità. Le vacche magre non piacciono neanche a loro. Ma non è vero, non deve essere vero che poi, in compenso, pretendano le vacche troppo grasse. Se non altro, per dignità, per un equo senso della vita, per un loro umano amor fati, amore del rischio e del destino. Né troppo magre, né troppo grasse. Una cosa giusta. ............................................. N O V I T À
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