IL CONTESTO appartiene l'atteggiamento razzista esibito e teorizzato, anche quando sfocia immediatamente nella conseguente e gratuita prepotenza. Il problema di come intervenire è allora certamente legato al come difendersi (ma perfino da noi stessi), ed ecco perché l'appello fiducioso alla scuola o alla televisione appare non solo sbagliato ma anche sospetto. Sappiamo come funzionano le terapie delle informazioni intensive a scopo preventivo, dentro e fuori la scuola: occorre semmai guardarsi dal loro eccesso e da quanto l'overdose di notizie generi aporie di formazione critica, produca cortocircuiti, funzioni come un vaccino. Una più attenta e capillare informazione sugli ebrei (oppure sugli zingari, gli omosessuali, gli arabi, i negri ... per citare nell'ordine esatto delle statistiche le categorie che risultano più invise agli italiani) non sposterebbe affatto verso il basso la percentuale di antisemiti (o di "anti-zingari", o di "anti-altri") nel nostro paese: si sa fin troppo bene cosa succede quando si aumenta l'attenzione verso un soggetto o un prodotto nella nostra società dello spettacolo e della pubblicità. A fronte di un rafforzamento dell'esercito opaco dei già convinti, salirà anche la cifra e l'ottusità degli anticorpi, dimostrando così quello che già si sapeva ma che si è sempre desiderosi di riascoltare: che una quota ''fisiologica" di giovani e non, sarà inevitabilmente attratta dall'altra parte, proprio come succede nel Mercato. No. Per difendersi - anche da questo opprimente paradigma - bisogna proprio intervenire, che è come dire, ancora un volta, che la risposta va cercata nei fatti invece di rifugiarsi dietro il muro della notizie. Questo in fondo devono aver pensato anche i giovani ebrei romani, prima di 'risolversi a un scelta violenta. Il problema è poi Manifestazioni contro il razzismo a Roma. (fato di Luigi Baldelli/Contrasta). quello (e non vogliamo giustificare niente né nessuno) che, quando si decide all'improvviso di agire direttamente o di esporsi in prima persona, non vengono in mente troppe varianti, e la violenza, prima di diventare spirale, ci appare come una linea diritta e per di più in discesa. Forse non è vero che si mostra appetibile e sicuramente non la si può sempre invocare come necessaria, ma c'è, e spesso si impone fra le altre scelte disponibili, perché è la sola a poter vantare, insieme, una qualche naturalezza e una lunga tradizione. Comunque però sia andata, o comunque purtroppo prosegua, è certo che l'indicazione all'intervento va in ogni caso difesa, nonostante il rischio o il prezzo di una violenza non necessaria e dunque non inevitabile: vanno cercati, e magari elaborati, altri comportamenti ed atteggiamenti efficaci, purché non stiano sopra o attorno, ma insistano dentro la linea dei fatti. L'indicazione all'intervento equivale dunque al recupero di un principio di realtà, che non è più conveniente dimenticare. È nel terreno della concreta relazionalità e degli eventi reali che ciascuno affronta il gioco della costruzione della propria identità e del confronto con gli altri: un gioco e un terreno che risultano sempre più addossati al privato e sempre meno riconosciuti come pubblici. Ormai gran parte della quotidianità e della vita sociale e culturale risulta confinata e appartata; si è come tradotta in un'area di "sociabilità" in cui i comportamenti - per normali o devianti che siano - restano faccende intime, segnali non classificati, rumori non identificati. Se la si vuole mantenere così, per magari poterne esplorare le oscure profondità a colpi di scoop e di sondaggi, non può far meraviglia che talvolta in quell'area si proceda a spintoni o che ogni tanto vi si verifichino violente scorrerie. Ci si dovrebbe anzi chiedere se è proprio vero che "i fatti" che vi succedono o l'attraversano fanno davvero notizia. Oppure se è proprio in questo che le notizie mentono.
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