L'alienazione è l'esilio dalle emozioni - dalla speranza, dalla fiducia - mandate via da qualche parte in modo che non ci tradiscano. L'esilio che conosco personalmente è un esilio molto meno cupo di quello che toccò ai figli di Saturno; non è drammatico come l'epica di Edipo, e neppure un po' lirico, come una ballata che rimpiange i vecchi tempi al suono del liuto di un poeta slavo. Non è neppure l'esilio di una persona giudicata pericolosa per i suoi discorsi, mandata in un luogo lontano in cui non si possano udire i suoi messaggi. Sto parlando della perdita di un uso del linguaggio che costituisce, a mio parere, il suo impiego fondamentale - quello poetico, nel senso più ampio del termine - e di come questo ramo del nostro linguaggio sia stato tranciato e gettato via senza pietà. È stato ovviamente questo, fin qui, l'argomento che ho affrontato. E qualcuno può chiedermi, essendo così completa la sua scomparsa, qual è quest'uso particolare del linguaggio e cosa lo rende così speciale? Ahimè, rispondere richiederebbe un altro saggio e un'onestà assente in quasi tutti i cuori. È, innanzitutto, un uso del linguaggio che si rifiuta di essere un uso. L'uso è abuso. Dovrebbe essere questo il motto di ogni vita che si rispetti. Perché essa possa recepire ogni parola come una meraviglia, come un mondo a sé. E camminare tra loro, anche su vette vertiginose, con la sicurezza di un operaio su travi d'acciaio. Dove essa non si cura di salire, ma vi dimora; trasformandosi, come scrisse Rilke, in una Tutti i lunedì dal 5 ottobre con fUnità SAGGI/GASS cosa, muta come la statua di un oratore. Essa torna al buio assoluto da cui - piangendo - siamo venuti, riscopre gli errori e gli agi dell'infanzia, per tornare con abilità di mago a far danzare i muri del mondo. Paul Valéry divise i palazzi in questo modo: in quelli muti, e quindi, per conto mio, senz'anima, morti; in quelli che parlano, e che possono essere, secondo me, cittadini solidi ed esemplari, a patto che i loro discorsi siano chiari, onesti e sinceri; e quelli che cantano, e sono questi che trovano in se stessi il loro vero significato, e si sollevano come l'allodola di Shelley sull'atmosfera più greve. Ci siamo abituati a far tacere questo canto. Facciamo altri rumori. Eppure è una vecchia legge della storia che gli esuli ritornano, che tornano rabbiosi ora in veste di espulsi, ora di idee censurate, ora di barricate, per reclamare l'eredità che spetta loro. Tornano rabbiosi, non solo perché ricordano e rimpiangono la vita a cui sono stati strappati, ma perché il passato non può mai essere recuperato - neppure da un Proust - non se desideri di nuovo tornare ad abitarci. Per ascoltare le nostre storie, altre identità sono state inventate per rimpiazzare le bambole che, se esistono ancora, sono vive altrove e in altre braccia. Ma, ovviamente, la poesia, se ritorna, non ce la farà pagare. No. Non ci manderà a morte o in prigione, e neppure via, come hanno fatto con lei, in maniera così desolante. Ci farà, semplicemente, vergognare. Il piacere della lettura in 12 brevi capolavori l'UnitàfE• lllaudi Conrad Melville Cechov Stendhal Tolstoj Voltaire Mérimée James Gogol Diderot Balzac Dostoevskij
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