Linea d'ombra - anno X - n. 76 - novembre 1992

ILCONTESTO Giornalisti .•• Venderesenzavendersi Giorgio Pecorini Accomunati ali' insegna di "Giornalismo anni '90", tra giugno e luglio di quest'anno alcuni fra i più autorevoli protagonisti del mestiere ci hanno detto dalle pagine dell'"Unità", sia pure ali' ingrosso e con omissioni frequenti e cautele assortite, quel che pensano di se stessi, del lavoro proprio e dei colleghi, degli editori e dei lettori. I terni conduttori del discorso son stati due, variati in tutte le tonalità possibili: il gran guasto prodotto dal modello televisivo, cui la carta stampata sarebbe costretta ad adeguarsi, per ragioni di concorrenza cioè di sopravvivenza; e la crescente, in larga misura conseguente, cecità e sordità dinanzi ai problemi e ai mali del paese. Sordità e cecità che finiscono col rendere anche muti giornali e giornalisti: ad autocastrarsi cioè, rinunziando all'arma migliore di cui dispongono: l'inchiesta. I due terni sono stati poi ripresi, rimescolati e rivoltati in un ulteriore dibattito aperto, sempre sull"'Unità" , da Alberto Asor Rosa per lamentare il "silenzio degli intellettuali": "la figura dell'intellettuale come opinion-maker è entrata in una fase di declino", scrive. E denuncia l'invadenza dell' "uni verso multimediale" come causa prima del guasto. L'imputato è insomma da capo quel modello televisivo che coi suoi personaggi sbracati e il suo rozzo linguaggio induce gli intellettuali, o almeno quelli che rifiutano l'omologazione, a "evitare, appartandosi, una concorrenza così temibile" e quindi ad autoemarginarsi, col risultato di ridursi anch'essi ciechi, sordi e muti, come i giornalisti. Il lamento di Asor Rosa ha suscitato nei meglio giornali un tale putiferio di risentimenti, di distinguo, di sottigliezze dialettiche da far perdere il filo e la pazienza a molti. "Tra le altre cose interessanti, questo dibattito dimostra non essere affatto vero che gli intellettuali italiani non dibattano. Dibattono, però, principalmente sugli intellettuali. Non è vero che tacciano: scrivono molto, soprattutto sul silenzio degli intellettuali", sbotta per esempio Michele Serra ("l'Unità" del 7 ottobre). E butta là una domanda: "Non sarà che gli intellettuali, per poter finalmente fare gli intellettuali, dovrebbero interrompere il dibattito sugli intellettuali?". Perché, spiega, quel dibattito "impedisce loro, parlando sempre di se stessi, di parlare del mondo, che è poi ciò che si pretende da un intellettuale". E par di riscoprire l'invito dei ragazzi di Barbiana: "Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l'hai pagato caro. Deformato dalla specializzazione, dai libri, da contatti con gente tutta eguale. Perché non vieni via? [...] Smetti di leggere, sparisci. È l'ultima missione della tua classe" (Lettera a una professoressa , p.96). Sul tasto dell'autocastrazione, Giampaolo Pansa ha pestato con molta forza. Nel corso del primo dibattito ("l'Unità" , 9 luglio) constata che i giornalisti in grande maggioranza, pur essendosi accorti del regime di corruzione instaurato nel paese, "volenti o nolenti hanno taciuto": "tanti direttori e tante grandi firme hanno fatto di tutto per restare all'oscuro di quanto avveniva". E presentando il suo nuovo libro, I bugiardi, dichiara: "Se questo sistema dei partiti, nei suoi aspetti più volgari e truci, è durato tanto è perché ha avuto dei complici formidabili nel sistema dei media" ("la Repubblica", 7 ottobre). Diagnosi esatta se soltanto ora che quel sistema dei partiti comincia a sgretolarsi, anche il sistema parallelo dei media comincia ad avere soprassalti di dignità e di indipendenza antilottizzatrice così allarmanti per i lottizzatori da indurre il governo, con un colpo di coda estremo tanto disperato quanto dissennato, a tentare il bavaglio della censura. Ma se questa è la desolante regola (e davvero lo è), perché il bilancio abbia senso bisogna dar conto anche delle rare eccezioni che, confermandola, completano e aggravano il quadro delle responsabilità globali della corporazione. Eccezioni praticamente, ossia politicamente, irrilevanti se non inutili, quanto a capacità ampia di informare e, informando, di incidere e di mobilitare; buone forse soltanto a salvare l'anima individuale del giornalista: magra consolazione per chi, sprovvisto del dono della fede, l'anima, nel senso cristiano-cattolico, non è neppure sicuro di averla. Eppure testimonianze e rivendicazioni irrinunciabili. Pansa denuncia "due comportamenti entrambi pessimi": dei giornali e dei giornalisti:" a) tacere per non disturbare il manovratore, ossia il sistema politico, opposizione compresa; b) parlare, ma soltanto per spacciare balle". Due comportamenti e due responsabilità comunque possibili e imputabili soltanto ai giornalisti in carriera nei giornali che contano. Per il giornalista e per i giornali che contano poco o niente, se rifiutano tanto di spacciar balle quanto di tacere può darsi più frequentemente un terzo comportamento (subìto, non scelto): quello di essere costretti lo stesso al silenzio, e due volte. La prima volta, col pro.gressivo ridursi di spazi, che porta il giornale, strozzato dai meccanismi della distribuzione e della pubblicità, a chiudere e il giornalista a non aver più dove scrivere, a parte i muri e "Linea d'ombra". La seconda volta, col ricatto di neppure poter denunciare le censure patite, se giornale e giornalista, appartenendo alla stessa opposizione di sinistra, si fan scrupolo di non disturbare i "manovratori" per non regalare alla destra argomenti e strumentalizzazioni (vedi la fine de "L'Ora" di Palermo e dei suoi redattori): un esempio di quel ricatto delle "alleanze oggettive" lucidamente analizzate da Leonardo Sciascia (Afutura memoria , p. 27). Sul tasto di un giornalismo cieco e sordo e perciò muto davanti ai guasti del paese, pesta anche Giorgio Bocca, per concludere che "se uno vuol fare questo mestiere correttamente deve rinunciare alla politica". Nel suo pedagogico "Parla come mangi", "Cuore" avrebbe potuto tradurre: "Per fare correttamente questo mestiere bisogna non farlo"; ma è stato preceduto da Ugo lntini, indiscusso portatore dell'allora indiscutibile voce di Craxi, intimando: "Giornalisti, smettete di fare politica" ("l'Unità" , 26 giugno e 3 agosto). Giorgio Bocca s'ostina invece a farlo questo mestiere; e dall' interno di esso, richiamando i due comi di un dilemma fra i quali si barcamena da sempre, avverte: "Nei giornali la gente ha paura e si naviga tra paura e desiderio di stare dentro il sistema". Anche sull'altro tema conduttore del dibattito, cioè il gran guasto recato a giornali e giornalisti dall'allineamento al modello televisivo, çiiorgio Bocca interviene: "La televisione è una pessima cosa. E inutile che il signor Berlusconi continui a dirci che fa bene. Fa malissimo". E lo testimonia riconoscendo di essersi lasciato "far fesso" per "sei o sette anni", assieme ad Arrigo Levi e Guglielmo Zucconi, proprio dal Berlusconi: questione di gusti, di riflessi e di stipendi. Il discorso dell'allineamento-appiattimento sull' "idiota" 7

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