Linea d'ombra - anno X - n. 76 - novembre 1992

SAGGI/GASS Analitico come Duchamp e Gertrude Stein, Gass pone il lettore di fronte a una serie di parole-puzzle, dimostrando che ogni espressione contiene mille varianti, e riserva sempre nuove soluzioni semantiche, sensibile com'è alle sottili manipolazioni e agli imprevisti slittamenti prodotti dallo scrittore. Nella "litania" non-finita On being Blue ( 1976), il blue - come l'altrettanto irriducibile "rosa" di Gertrude Stein - è un termine ambi valente che esprime un colore, ma anche uno stato d'animo, preso com'è in un meccanismo di sistematica defamiliarizzazione che nell'opera di Gass investe via via altri termini densi e resistenti all'interpretazione come "suicidio" e "esilio", di cui leggiamo, di qui a poco, le variazioni sul tema. Colti nel loro mistero, questi termini irriducibili racchiudono I' enigma di una dimensione autoriale che è insieme linguistica e esistenziale, perché la parola poetica è per sua appartenenza, estrane~ all'uso e all'usura prodotti dall'abitudine e dall'inflazione linguistica. E lei la casa dei senza patria, il luogo indeterminato in cui si muove, braccato, un narratore ancora fiero di appartenere al mondo della scrittura; all'unico mondo, cioè, che non rivendica vecchi poteri e parentele, che non si affanna a ridefinire i propri confini per erigere nuove barriere. (D. D.) a Heide Ziegler Cominciamo dal buio da cui abbiamo avuto origine: un buio in cui non esisteva ancora né colore di pelle, né distinzione tra mio e tuo, nessun groviglio di lingue, né idee falsamente suadenti, né preoccupazioni capaci di espandersi come una macchia di petrolio sul nostro oceano amniotico; quindi nessuna separazione tra una parte e l'altra, nessuna meschinità, niente tradimenti, né promesse, né divieti, né frustrazioni che durano una vita. Abbiamo avuto origine in un luogo dove il buio copriva davvero il volto delle cose, e non perché avessero tirato gli scuri e lasciato fuori le luci accese, ma perché il buio era etere per noi, e ci lasciava dormire in pace. Era un mondo in cui a chi chiedeva qui passa? si poteva rispondere in tutta onestà, nada. Cosa ha tinto quel buio di minaccia? Presto siamo diventati troppo grandi per i nostri stivali, per le nostre bretelle, e per poterci sentire davvero a nostro agio. Allora le pareti del nostro mondo si sono slanciate contro di noi e, con la presa di un lottatore, ci hanno scaraventato fuori come uno sgabello: che sollievo per quelle vecchie pareti, finalmente rilasciate, flosce come un pallone sgonfiato; ma che confusione per noi, ormai in balìa delle sensazioni più svariate, e bruciati dalla luce. Alcuni la definiscono ancora un trauma - la nascita - e i primi poeti greci piangevano quel giorno proprio come fanno i neonati, spiegando che noi urliamo per la crudeltà di essere buttati fuori nell'aria aspra e accecante dove ogni percezione è dolore, dove urlare e respirare sono la stessa cosa. Prima di allora era la natura ad alimentarci e ad accudirci, e, anche se qualche veleno poteva fluire dentro di noi, e i nostri codici genetici potevano risultare male assortiti, tutti i nostri scambi erano innocenti, automatici e regolari come il nostro polso. Ora, invece, eravamo improvvisamente nelle mani del1'Uomo; vale a dire, in braccio a Mamma e Papà, orgogliosi della loro nuova acquisizione, orgogliosi di aver soddisfatto la loro 84 funzione, perché si deve presumere che siano felici, quando ci fanno i loro primi cucù, che saranno le nostre prime parole - coup de coude, coup de bec, coup de téte, coup de main, coup d'état, coup de grace - mentre noi ci domandiamo perché mai ci siamo bagnati e da dove arriva la nostra prossima poppata, il perché di tutto quel rumore quando strilliamo, perché ci sbattono e ci scuotono, o come pretendono di farci restare tranquilli a stomaco vuoto, di non farci strillare quando ci ingozzano, di non farci piangere quando ci frizionano per asciugarci, di farci fare meno cacca, di non farci desiderare quello che vogliamo quando lo vogliamo. La vita stessa è esilio, e la sua inevitabilità non serve ad attenuare la nostra angoscia né a modificare la nostra condizione. È un colpo da cui solo la morte può risollevarci, e quando, mentre siamo sul punto di morire, ci dicono che stiamo per tornare a casa, possiamo anche sentirci pronti ad accogliere il buio che ci era così familiare, il nada confortevole dei bei tempi andati in cui ogni giorno era soltanto notte. Forse sarà questa, però, l'ultima menzogna che ci sentiremo dire, perché il buio che si avvicina sarà un buio di cui non ci saremo mai neppure sognati. Non sarà il nulla assoluto che ci risolleva da una lunga sofferenza - una trapunta che ci ricopre con dolcezza, il ritorno di un passato felice, un grembo ritrovato -ma uno zero che reca al suo centro un altro zero. Non sarà il Nulla da cui non nasce nulla, ma il Nulla che non è nient'altro che un no - e un no, oltre tutto, che non è altro che la pura e semplice rotondità della sua 'o'. Quando Adamo ed Eva vennero espulsi dal Paradiso, secondo il racconto cristiano, la morte, il dolore e la fatica li seguirono per punirli della loro colpa - quella di aver ceduto alla prima mela che cadde loro in grembo. In un giardino pieno di peri, di prugni, e di ciliegi da cui poter scegliere - l'Albero della Felicità, la vigna dell'Appagamento, la Siepe del Coraggio, e il fitto cespuglio dell'Indecisione - cos'altro potevano fare se non cogliere il frutto raccomandato da una serpe? Secondo i Greci, molto più saggi a mio parere, la vita era una frase, l'amletica Danimarca che ha fatto del nostro mondo una prigione, e del nostro corpo la bara dell'anima. Questa concezione entrò nella tradizione poetica, per cui, passato qualche secolo da quando i poeti Greci ebbero a lagnarsi che la cosa peggiore che potesse succedere a un uomo era quella di nascere, e che la migliore era di arrivare alla fine il prima possibile e nella maniera meno dolorosa, Guillaume du Bartas avrebbe scritto: Pensa solo che tutti gli anni della nostra vita Non sono che Esilio e Peregrinazione. Che una volta le cose andassero meglio- prima della rivolta degli Angeli (quelle possenti legioni - scriveva Milton - il cui esilio ha svuotato i cieli), prima della caduta dell'Uomo, in quell'età dell'oro prima del Diluvio Universale e del crollo della Torre di Babele, quando i giganti ct1lcavano la terra; quando esistevano veri eroi, re leali, autentici draghi, comunque sia, prima di venir buttati, con la nascita, in questo mondo brutale - è una convinzione che ci accompagna costantemente e che in qualche modo ci consola. Naturalmente la consolazione sta nella nota di sollievo con cui annunciamo in falsetto che un giorno la nostra colpa verrà espiata, che alla fine ripareremo completamente i torti dei nostri lontani antenati, che la morte ci libererà del

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