Linea d'ombra - anno X - n. 76 - novembre 1992

ESILIO William H. Gass a cura di Daniela Daniele A dispetto della sua equivocabile e ormai frusta etichetta, la narrativa postmoderna americana non è un facile prodotto degli anni Ottanta. e neppure l'immediato corrispettivo del pensiero debole. Come ha vo1uto sottolineare Raymond Federman, i racconti autoriflessivi di Pynchon, Gass, Barthelme, Barth sono nati nel clima di diffuso scetticismo e di crisi del consenso seguito all'assassinio dei grandi leader democratici e al riflusso dei movimenti di protesta degli anni Sessanta. Raccogliendo la difficile eredità delle avanguardie e portando alle estreme conseguenze il loro rifiuto dell'arte mimetica e la riflessione formalistica sul linguaggio, questa generazione si è interrogata sulle false verità dell'establishment e della cultura mediale mettendo in discussione l'autenticità della propria scrittura. Ad esclusione di pochi scrittori avveduti e del crescente numero di lettori di Pynchon e Vonnegut- in Italia è venuta a mancare quella conferma di pubblico capace di sottrarre alle valutazioni affrettate questi scrittori ormai "di culto" nei campus americani che in questi anni non hanno smesso di offrirci nuove occasioni di riflessione suI presente e sui nuovi modi del nostro comunicare. Nato a Fargo, in Nord Dakota nel 1924, William Gass è tra gli animatori più interessanti di questa generazione; e certamente il più accanito a sperimentare una scrittura acrobaticamente sospesa tra saggio e racconto, tra riflessione e narrazione, che egli stesso si limita a definire semplicemente "prosa". Formatosi alla scuola di Ludwig Wittgenstein e a quella del "new critic" John Crowe Ranson, Gass - scrittore e docente di filosofia - traspone in termini potentemente allegorici una meditazione sul linguaggio che egli continua in forme altrettanto anfibie nei saggi, dove riesce a conciliare la cerebralità del discorso con un sentimento di profonda partecipazione. Avido lettore di Rilke, di Valéry e di Gertrude Stein, è fra gli scrittori postmoderni quello che più ha paventato la minaccia di veder esaurita la vitalità del discorso letterario sotto la pressione entropica dell'industria culturale. Per questo, la sua tendenza a tradurre ogni racconto in una lunga digressione metalinguistica, in un'insistita riflessione sulla na ura retorica di ogni discorso va intesa come l'estremo tentativo di sottran·e la verbalità all'assedio dei gerghi e dei luoghi comuni, all'inflazione di messaggi e dei "detriti" linguistici messi in circolo dai nuovi tramiti tecnologici. Tuttavia, a differenza di Thomas Pynchon e di Donald Barthelme, Gass non incorpora nel suo racconto schegge di pubblicità e di videocultura: quasi a voler far suo il malinconico rimuginìo del poeta baudelairiano, egli tende a sottrarsi'alle nuove fantasmagorìe di fine secolo e a rintanarsi nel lo spazio privato della narrazione, in un mondo di parole che pare realizzarsi appieno solo nel chiuso della coscienza dell'autore. Infatti, la scrittura impone una scelta di cosciente isolamento e introversione che non conduce lo scrittore davanti alla propria realtà di individuo ma alla sua consapevole identità di produttore di "frasi". Il meandro di parole già prefigurato da Borges costituisce vita e nutrimento per la mente creativa: rappresenta la "casa" della conoscenza che mette il narratore al riparo dal disordine mediale, restituendogli quella capacità di riflessione che distingue l'uomo dalla macchina. Questa hybris umanistica che parrebbe a prima vista allontanare Gass dal più dichiarato scetticismo di altri autori della sua generazione, resta, però, profondamente insidiata da un radicale dubbio epistemologico, dalla coscienza di appartenere a una tradizione letteraria e di pensiero che non è più mito e memoria ma soprattutto retorica. Attribuendo al linguaggio quel potere generativo di "realtà" che Marx aveva riconosciuto alla storia e Freud alla psiche, Gass trasforma la parola in una dimensione pervasiva del!' intera esistenza. Il linguaggio diventa così corpo, voce e dimora per gli introversi protagonisti dei suoi racconti, i quali, come l'"innominabile", logorroico narratore beckettiano, sono coscientemente privi di una psicologia distinta a tutto vantaggio del loro incessante lavorìo verbale. Mero agente linguistico, ma audacissimo nel suo spazio di manovra mentale, il cerebrale anti-eroe di Gass era d'alt.ronde già in nuce, come ha osservato Tony Tanner, in altri paranoici rifugi del romanzo americano contemporaneo: nella casa-serra in cui Pynchon rinchiude l'esteta Callisto per renderlo impermeabile all"'Entropia" e al "rumore" esterno; nel rifugio suburbano in cui si rintana l'esasperato grafomane Herzog nell'omonimo romanzo di Saul Bellow, fino a spingersi nel clima asfittico de La campana di vetro di Sylvia Plath -un testo claustrofobico molto amato da Gass, dominato com'è da un io ipertrofico sull'orlo del suicidio, narcisisticamente impegnato nell'esplorazione del "tunnel" della sua psiche. Il "tunnel" - che è il titolo dell'attesissimo "anti-romanzo" di cui Gass ci ha già dato qualche breve anticipazione-è quello di una mente ossessi va che ritrova ossigeno solo quando si mette a inseguire imprevisti e inusitati percorsi di scTittura.Infatti, il narratore di Gass non ha mai una storia o un messaggio preciso da comunicare: la sua unica, vera esperienza è quella di trasformarsi da passivo osservatore dell'esistenza altrui in un prigioniero del linguaggio che passa dalla muta superficie delle cose al cuore delle parole. La scrittura è infatti la lenta, progressiva messa a fuoco di un paesaggio tutto interiore che conduce irreversibilmente dentro l'enigma del linguaggio, ovvero Nel cuore del cuore del paese, come legge il titolo italiano di un noto racconto del 1968. Va detto però che l'impersonale anatomia della mente messa a punto da quest'autore, non degenera mai in gioco tautologico o in beffardo esibizionismo, perché, in Gass come in Rilke, la parola contiene in sé il nucleo dell'anima, l'essenza dello spirito - virata socratica con cui l'autore imprime alla sua autocoscienza di scrittore (artifex) un valore mitico ed esistenziale.L'esilio del narratore nella sua "splendida barriera di parole" non è infatti un narcisistico ripiegamento ma l'estrema conseguenza della natura mediata del linguaggio, la quale accentua e perpetua una condizione di inesorabile isolamento profondamente vissuta dalla coscienza protestante. Nel primo romanzo (tradotto in Italia nel 1973 col titolo Prigionieri del paradiso), l'autore affianca al personaggio cerebrale e t01mentato un incosciente alter-ego che crede di poter vivere senza pensare, ostentando un contatto diretto con le cose definitivamente precluso agli uomini dai tempi del peccato originale. La mente che prova a resistere alla Babele contemporanea -che è l'esito ultimo della mitica condizione di esilio dell'uomo - non ci riesce aggiungendo nuovi messaggi a quelli già in circolazione ma esaltando l'ambiguità del suo tramite di comunicazione, e cioè la duttile sensualità e la problematica ambiguità della parola. 83

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